la Repubblica, 8 maggio 2022
Marco Bellocchio parla del fratello Piergiorgio
Nella paginetta che apre una sua raccolta di scritti sulla letteratura,Un seme di umanità (Quodlibet), Piergiorgio Bellocchio racconta la gioventù spesa a leggere romanzi.
«Credevo che la mia vocazione fosse quella di narratore». Non lo è diventato, ma nei panni di iperlettore, critico, animatore di riviste e avventure editoriali — daQuaderni piacentini a Diario — si è guadagnato, quasi controvoglia, lo statuto di maestro. Un maestro in ombra, piuttosto misterioso; un moralista intelligente e idiosincrasico, che «ha vissuto per conto suo», come ha scritto Adriano Sofri al momento del commiato. Morto novantenne il 18 aprile scorso nella città della sua vita, Piacenza, Piergiorgio ha fatto l’ultima apparizione pubblica in un film documentario — bellissimo — del fratello Marco, Marx può aspettare. Una eccentrica “reunion” dei Bellocchio: fratelli e sorelle messi di fronte all’evento inatteso e scardinante della storia familiare, il suicidio nel 1968 di Camillo, gemello di Marco.
Piergiorgio contribuiva al racconto più con i dubbi, le incertezze, le dimenticanze (e lo stupore di avere dimenticato) che con la memoria baldanzosa che ci si aspetterebbe in una sedutaquasi analitica.
«Piergiorgio mi ha fatto da padre, più che da fratello maggiore», racconta Marco Bellocchio, parlando del fratello per la prima volta dopo la sua scomparsa. «E non lo dico in un senso metaforico, perché con la malattia e la morte di nostro padre si è dovuto occupare della gestione di una famiglia numerosa e senza rendite. E intanto seguire la passione che l’ha portato, pur senza laurearsi,alle sue imprese editoriali, alla creazione di quel foglio di provincia che non aveva niente di provinciale e, a dispetto del nome, forse nemmeno di piacentino».
Quanto è stato importante Piergiorgio per la sua formazione intellettuale?
«Non so se si possa dire che ho cominciato sulle sue orme, ma di sicuro me ne stavo zitto e lo ascoltavo. Imparavo da lui a leggere, anzi a capire che cosa leggere, e soprattutto come».
Fa effetto pensare che nella stessa famiglia siano venute fuori due “vocazioni” tanto forti.
«La sua è stata chiara da subito. Io ho avuto come una falsa partenza da pittore e poeta, e credo di avere dato un lieve dispiacere a lui e anche alla sua, nostra grande amica Grazia Cherchi. Amavano molto il cinema, naturalmente, ma che uno si mettesse a fare film, nella loro prospettiva, che era un misto di moralismo e aristocrazia politica, be’, era come stare un gradino più in basso rispetto a quello della purezza del poeta. D’altra parte, l’avevano rimproverato anche a Pasolini…».
Il cinema vi ha quindi allontanati?
«No, semmai ha allontanato me da Piacenza. E mi ha cambiato.
Forse inizialmente somigliavo di più a mio fratello. Ma il cinema obbliga a sconfinare».
Invece lui è rimasto per tutta la vita nella sua città.
«…che non ha gli ha dato granché. Ma non sentiva l’esigenza di spostarsi, che so, in una città come Milano, il cuore dell’editoria, o come Roma. Non gli interessava. A volte è stato rimproverato per questa pigrizia. Qualcuno gliel’ha anche detto: “Piergiorgio, muoviti! Svegliati!”.
Ma non ne era toccato più di tanto. In questo c’entra di sicuro il carattere, e forse anche una certa vena depressiva, o comunque una scarsa capacità di entusiasmo. Ecco, l’entusiasmo gli è sempre un po’ mancato».
Vuole dire che viveva come una passione fredda?
«Voglio dire che era lui a raffreddarla. E gli capitava di disamorarsi: dei romanzi, dei film, ma anche della politica».
Diceva di non avere sofferto il successo internazionale che lei ha avuto come regista.
«Piergiorgio ha sempre goduto diuna grande stima intorno a lui, e si è vista anche al momento della sua morte. Ho colto una ammirazione autentica nelle parole di molti che lo hanno ricordato. Ma è un fatto che non abbia mai cercato occasioni per avere più risonanza; e molte di quelle che ha avuto, le ha come scartate. Se avesse avuto più successo sarebbe stato toccato anche lui dalla vanità, che invece non lo sfiorava? Qualche volta me lo chiedo».
Fa pensare a quel misterioso personaggio di Melville, lo scrivano Bartleby, quello che «preferisce di no».
«Non dico che volesse rappresentarsi come un asceta, ma nella sua esistenza leggo un progressivo, sempre più tenace rinchiudersi. Ecco, proprio come se volesse scomparire».
In “Marx può aspettare”, Piergiorgio confessa di avere smarrito la lettera d’addio di vostro fratello Camillo, morto suicida, durante una perquisizione. Distruggeva alcune carte e ha distrutto anche quella. In questo caso sembra che fosse totalmente coinvolto dall’impegno politico.
«Erano gli anni di maggiore coinvolgimento, nelle file di una sinistra radicale comunque lontana dalla vera militanza. Gli fu chiesto di dirigere Lotta Continua, per dire, e lui lo fece, ma solo perché a Sofri serviva qualcuno con il tesserino di giornalista. Non aveva percepito che la situazione di Camillo potesse finire in tragedia, questo è vero. Ma nessuno di noi l’aveva capito».
C’è una scena, nel suo film “Vacanze in Val Trebbia”, in cui i letti della vostra infanzia scivolano nel fiume e scompaiono. Oggi vorrebbe ripescarli?
«Nel film ho usato quelli veri, ritrovati nella soffitta della casa che poi è stata venduta. Allora ero in un passaggio radicale della mia vita, gli anni dell’analisi collettiva con Massimo Fagioli. E credevo di chiudere così il legame con i miei luoghi. Per molti anni non sono più tornato. Solo quando è nata mia figlia Elena, ventisette anni fa, mi sono riavvicinato a Bobbio, ho attivato i corsi di cinema, un festival. E l’ho fatto con lo spirito di chi rifiuta la tristezza del superstite, non vuole fare la conta dei vivi e dei morti, ma intende piuttosto capire, scoprire. E ripartire sempre».