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 2022  maggio 08 Domenica calendario

L’ossessione imperiale di Putin

«Se non io ora, chi, quando?». Vladimir Vladimirovi? Putin lo ripeteva da tempo ai rari intimi, con quel mezzo sorriso tirato che per l’età pare smorfia. Sapendolo allenato a governare un carattere emotivo e violento, i pochissimi che si scontravano con quell’anacoluto preferivano leggervi acida battuta anziché minaccia in cifra. Fino all’alba del 24 febbraio. Quando Putin ha annunciato alla Russia e al mondo che i suoi carri armati stavano invadendo l’Ucraina. Per riportare i «fratelli» a casa. Prima che il loro appartamento diventi americano. E che al Cremlino sieda un successore, di certo meno capace.
L’ultimo Putin è solo. Sa che il suo potere in apparenza totale è totalmente dipendente dall’opinione pubblica. Peggio, ne è prigioniero. Perché non può perdere. E perché oggi la maggioranza dei russi, persino della borghesia relativamente agiata, vuole andare fino in fondo. Quale sia questo fondo nessuno sa. Salvo che deve apparire trionfo. Nella tavolozza del totalitarismo alla russa scarseggiano le tonalità di grigio.
La verticale del potere è concetto caro a Putin. Significa che tutto afferisce al capo e dal capo si dirama alle membra del gigante eurasiatico ritagliate in 85 soggetti federali assai poco soggettivi e sempre più eterodiretti. Non per questo affidabili. Quando l’autocrazia entra in guerra, suona l’allarme. Ora come mai il rischio è che il flusso dei comandi lungo la verticale s’inverta. Dal corpo alla testa. Si chiama rivoluzione.
Putin lo teme. Perciò ha deciso di giocare il tutto per tutto. Nella sorpresa di quasi tutti, consiglieri stretti compresi. Disinformato dai suoi e dalla paranoia che attanaglia chi troppo a lungo siede al Cremlino, ha mancato l’obiettivo principale. L’ingresso trionfale a Kiev, con epinicio canonico a Santa Sofia e sfilata militare per i viali della città madre di tutte le Russie. Ne era talmente certo da ordinare ai soldati in marcia verso la gloria di portare nello zaino le uniformi da parata. Fallito o almeno rinviato l’obiettivo principale, Mosca discute di che cosa potrà essere spacciato per vittoria. E bevuto per tale dal popolo. Il popolo deciderà, prima o poi. Paradossi dell’autocrazia.
Guerra di Putin o guerra della Russia? La domanda dilania la comunicazione occidentale. I fatti rispondono: guerra di Putin e guerra della Russia. Per ora.
È raro che un popolo identifichi la sua guerra con il suo provvisorio capo. La Russia è diversa. Non perché tutti i russi siano putiniani. Niente affatto. Ma quando romba il cannone e univoca tuona la propaganda, scattano durissime sanzioni nemiche e il presidente americano bolla come «macellaio» l’omologo (si fa per dire) russo, il riflesso immediato è di stringersi al tricolore bianco-blu-rosso. Pensando forse all’imperiale nero-giallo-bianco. Un russo che Putin non lo voterebbe mai oggi potrebbe morire per lui. Per la patria.
Il danno reputazionale inflitto alla Russia dal solipsismo del capo, accentuato dalla sua modestissima opinione di collaboratori, consiglieri ed esecutori, non s’elimina con un colpo di smacchiatore. Di qui l’utilità di studiare come il carattere di Putin e quello del sistema di cui è prodotto s’incrocino e rivelino reciprocamente. La parola al suo ex consigliere Vladislav Surkov, quand’era libero: «La società non ha davvero fiducia che nel capo. Sarà forse la fierezza di un popolo mai vinto, il desiderio più agevole di rendere il cammino verso la verità, o altro? Difficile dire, ma è un fatto e non è nuovo. La novità è che lo Stato non l’ignora, lo prende in considerazione e vi si riferisce nell’esercizio di tutte le sue funzioni. (…) Il modello contemporaneo dello Stato russo comincia dalla fiducia e tiene grazie alla fiducia. È ciò che lo distingue dal modello occidentale, che coltiva la sfiducia e la critica. È di qui che trae la sua forza. Il nostro nuovo Stato, in questo nuovo secolo, avrà una storia lunga e gloriosa. Non sarà distrutto. Agirà alla sua maniera, otterrà e conserverà i posti migliori nella Champions League della competizione geopolitica. Presto o tardi, tutti coloro che chiedono alla Russia di «cambiare comportamento» dovranno rassegnarsi ad accettarla come è. Dopo tutto, che possano scegliere è un’illusione.
Putin ha un’ossessione: evitare alla Russia la fine dell’Urss. Precondizione del suo attuale progetto di rivoluzione mondiale. Movimento doppio. Territoriale, recuperando quanto possibile dello spazio sovietico, a cominciare dall’intera Bielorussia e da gran parte dell’Ucraina. Ma soprattutto identitario. Per Putin la Federazione Russa è provisorium. La Russia, quella vera, spiritualmente quindi spazialmente integrale, non esiste senza ristabilire la continuità della propria millenaria missione storica. Persa con il crollo dello zarismo, quindi dell’Idea Russa originaria. In questa ricerca della gloria passata, Putin rischia di distruggere la Federazione Russa in nome di una missione imperiale che non è più realizzabile.