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 2022  maggio 08 Domenica calendario

Quarant’anni senza Gilles Villeneuve

«Arrivò e disse: ho venduto la casa per comprare una macchina». «So bene che un giorno o l’altro finirò per avere un tremendo incidente». La prima frase è di Joann Villeneuve. La seconda è di suo marito, Gilles. Poche parole per comporre un quadro esauriente: inizio e fine di un’esistenza romantica, intensa e tragica. Vita e morte di un uomo mosso da una scelleratezza infantile, talmente manifesta da generare una forma particolare di affezione. Un bambino, un figlio scapestrato che raddrizzare non puoi. Rimproveri inutili, preoccupazioni permanenti e, alla fine, una resa da impotenza al cospetto di una natura incorreggibile. Per questo siamo qui a ricordare Gilles Villeneuve, morto a Zolder, in Belgio, quarant’anni fa, 8 maggio 1982, in un incidente pirotecnico al pari di molti altri. Sradicato dall’abitacolo della sua Ferrari mentre tentava vanamente un ennesimo exploit velocistico. Non poteva, non avrebbe dovuto. Sì, ma non c’era verso: Gilles correva intrappolato nel proprio destino deliberatamente eroico.
I capitoli di questa storia sono parte di una memoria collettiva costellata di immagini toccanti, sempre replicabili. Gilles appariva fragile nel fisico. Un ragazzo sconosciuto ed esuberante, perfetto per essere adottato dal Grande Padre del motorismo, Enzo Ferrari. Tradito da un figlio di tutt’altra pasta, cresciuto al punto da tenergli testa, Niki Lauda; indispettito al punto da mettere in pista un capriccio dei suoi, camuffato da favola candida. Quel piccolo canadese campione da motoslitta, toccato dalla bacchetta magica del Cavallino, trasformato in un principe in abito rosso. C’è del romanticismo anche qui. C’è proprio tutto per tenerci stretta questa avventura che appartiene a un mondo estinto, niente a che vedere con questa F1, con questi piloti automatizzati sin dall’infanzia da computer e simulatori, guidati da una rete di interessi raffinatissima. Villeneuve, un pezzo unico. Che a fare Gilles iniziò all’istante: una collisione con Ronnie Peterson, il suo mito; un volo sulla folla, due morti, lui che torna a piedi verso i box «come se niente fosse». Seconda corsa con la Ferrari.
Voleva essere il più veloce. Sul chilometro, sul giro, in autostrada. Per riuscirci, forzava, esagerava, distruggeva. Roba che oggi produrrebbe ritiro della licenza. Ruote trascinate, alettoni divelti, reti e muri. Più osava, più piaceva. Sei vittorie, rocambolesche come ogni sconfitta, la lealtà tipica del bimbo per accompagnare Jody Scheckter verso il titolo 1979. Un uomo, a differenza sua, da rispettare. E poi motoscafi ed elicotteri pilotati senza giudizio, i record da casello a casello, gomme fumanti. Peripezie di un discolo incapace di risparmiare, trattate come atti strabilianti di generosità. Amato dunque come Ettore, destinato a cadere. Enzo Ferrari andava in bestia osservando i cocci. Tenne il punto, la sua scommessa, ingoiando rabbia e critiche. «È stato un campione di combattività... gli volevo bene». Lo disse dopo la morte di Villeneuve. 
È un epitaffio che cela più di un’amarezza e toglie di mezzo il sospetto che il tempo di Gilles a Maranello, in quel 1982, fosse scaduto. Didier Pironi promosso a beniamino, misteriosamente autorizzato a disobbedire tenendo dietro Villeneuve a Imola, dove Gilles cominciò a morire in una foga furibonda, esternata in quel giro fatale a Zolder, 13 giorni dopo. Votato com’era a una fine precoce, come da pronostico e presentimento e per questo immortale. Dolore e amore per una favola compiuta da rileggere all’infinito. Mondata da ogni ombra, per il gusto agrodolce del rimpianto.