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 2022  maggio 08 Domenica calendario

Biografia di Roberto Loreti (in arte Robertino) raccontata da lui stesso

«A cinque anni già cantavo nelle trattorie per raggranellare qualche spicciolo, perché a casa non c’era una lira, ero il quinto di otto figli – io, Eugenio, Sergio, Anna, Enrico, Lucia, Angela e Sandro, più Armando morto di polmonite, era bellissimo, mamma Cesira ci ha pianto tanto – stretti in due stanze al Quadraro, sulla Tuscolana. Papà Orlando faceva lo stuccatore, decorava colonne e capitelli e guadagnava 30 mila lire alla settimana finché non si è ammalato, però in dieci non bastavano mai, perciò dopo la scuola – quando ci andavo – mi incamminavo verso Cinecittà, più o meno un chilometro, fino all’osteria “Da Giggetto”, ci trovavo sempre un sacco di artisti famosi, Totò, Vittorio Gassman, Tiberio Murgia, Capannelle, Maurizio Arena, Renato Salvatori, Marisa Allasio. E giravo tra i tavolini. “Signore bello, che canzone volete sentire?”». 
E ci scappava la mancetta. 
«Amedeo Nazzari era innamorato della mia voce d’angelo. Gassman era un po’ atteggione. Totò ogni tanto mi allungava pure cinquantamila lire. “Guagliò, t engo la gola chiusa e non mi scende giù il boccone ” , mi confessò una volta, commosso. Aldo Fabrizi invece restava sempre con la faccia china sul piatto della trippa, gli piaceva ascoltare “Signora Fortuna”, però non mi ha mai dato un soldo. “Mettete a sede, che voi magnà? Giggé, portaje du’ fettuccine” e io mica facevo i complimenti, capirai, a casa il pollo lo vedevo sì e no una volta a settimana, la mattina a colazione c’era l’orzo con una fetta di pane, che se non mi spicciavo me la rubava qualche mio fratello». E anche dopo, quando Roberto Loreti, 2 mogli, 3 figli – in arte solo e per sempre Robertino pure adesso che ne ha 75 (e non molla, a ottobre «se la gamba offesa mi regge ancora» partirà per gli Usa con Bobby Solo e Iva Zanicchi) – da bimbo prodigio vestito da cherubino che cantava per Papa Giovanni XXIII («Sua Santità mi fece una carezza e io mi chinai a baciargli l’anello, mai vista un’ametista così grossa») e per il presidente francese Charles De Gaulle («Un sellerone alto, sempre con il cappello in testa, sul palco accanto a Claudia Cardinale tremavo, avevo fatto la doccia gelata e mi si era abbassata la voce»,) a 15 anni diventerà uno dei cantanti più famosi e pagati degli anni Sessanta, collezionista di dischi d’oro dall’Italia all’Islanda, dal Belgio all’Australia e alla Siberia («Quando Gronchi andò in visita in Russia, Kruscev, quello che sbatteva la scarpa all’Onu, si complimentò con “la patria di Michelangelo, Raffaello e Robertino”, ha capito, sì?»), acclamato «Golden boy» alla Carnegie Hall di New York, eletto «Señor Simpatia» in Messico, il baby divo che riceveva 10 mila lettere al giorno, era rimasto un ragazzetto semplice: «Tutti i soldi li davo a mamma». 
Un bambino così piccolo in giro da solo? 
«Ero parecchio sveglio. Al pomeriggio andavo al cinema Folgore a scrocco, perché due miei fratelli più grandi vendevano gelati, mostaccioli e caramelle all’intervallo. Gli portavo le pagnotelle e poi restavo seduto fino all’ultimo spettacolo, mi addormentavo e loro mi riportavano a casa in spalla. La sera, se capitava, facevo qualche serenata, e quando tornavo con cinquemila lire in tasca papà era contentissimo, altro che preoccupato». 
E bravo Robertino. 
«Poi un giorno per strada, sarà stato il 1953, mi ferma un tizio di Cinecittà, lo chiamavano Camomilla, cercava comparse. Ero caruccio, con due occhi scuri che parlavano. “A’ regazzì, ndo vai? Hai voglia di fare un film? Ti vanno bene 30 mila lire al giorno per dieci giorni?” Come no, di corsa. Così ho avuto una particina in Anna con Silvana Mangano ed ero il figlio piccolo di Peppone-Gino Cervi ne Il ritorno di don Camillo, ho ancora la foto di me in braccio a Fernandel». 
La vera passione però era la musica. 
«Presi qualche lezione dal tenore Tito Schipa e da Beniamino Gigli, gratis eh, perché non potevo pagare, anzi, mi davano loro i soldi per comprarmi un cappuccino col maritozzo e il biglietto del tram per la via Flaminia, andata e ritorno, perché quando rientravo a casa era tardi e non era rimasto più niente in tavola. Quando a un concorso alla radio per nuovi talenti – mi ci portò Enzo Tortora, che signore – vinsi una spilletta d’oro, dopo tre giorni mamma se l’andò a impegnare al Monte di Pietà». 
A 13 anni fu scoperto da Volmer Sorensen, produttore e pianista danese. 
«Mi esibivo al Caffè Grand’Italia di piazza Esedra, il venerdì e il sabato arrivava Totò, elegante come un principe, sempre accompagnato da Odoardo Spadaro, e mi chiedeva di cantargli “Malafemmena”, “Io te vurria vasà” e “Marechiaro”. Mamma veniva a sentirmi con le mie sorelle, però restavano fuori, dietro la siepe, perché lì anche una granita costava ottocento lire, e con quelle ci mangiavamo tre giorni. Quando si presentò questo signore straniero, non sapevo chi fosse, invece suonava con Louis Armstrong, Gilbert Bécaud, Charles Aznavour, Sasha Distel. “Tra due mesi ti porto con me a Copenaghen”. “E dov’è? In America?”». 
Alla fine ci andò, accompagnato da papà. 
«Mi invitarono alla tv danese, in un programma trasmesso pure in Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda, Russia e Groenlandia. Un successone. Il primo 45 giri vendette 300 mila copie in due settimane solo in Danimarca, l’ellepì 28 milioni in tutta Europa. In Scandinavia ero primo in classifica, Elvis decimo. Il mio francobollo è al museo di San Pietroburgo, la mia voce andò in orbita con lo Sputnik». 
Nel 1964, rientrato in Italia, va al Festival di Sanremo con «Un bacio piccolissimo». 
«Con le labbra tue di zucchero… Eh, quasi non mi volevano ammettere in gara perché non avevo nemmeno 17 anni. “Che faccio, torno a casa?”. Arrivai quinto, vinse Gigliola Cinquetti con “Non ho l’età”, pure più piccola di me, ma superai il milione e 700 mila dischi venduti. Ci tornai nel 1965 con “Mia cara” e nel 1969 con “Le belle donne”, in coppia con Rocky Roberts». 
Con Claudio Villa (rima baciata: «Te faccio schizzà fori la tonsilla») facevate a gara di stornelli romaneschi. 
«Un amicone, giocavamo a carte, una volta gli vinsi nove scope di fila. “Oggi ti mando in bianco”, promisi. Non vide un punto. E perse 900 mila lire, tanto mica puntavamo soldi veri». 
A Little Tony soffiò una conquista. 
«Eravamo al Cantagiro, vicino Rimini, aveva messo gli occhi su una maestra di una colonia estiva, perciò aveva organizzato un’uscita a sei, lui, io, un altro ragazzo e due amiche di lei. Però finì che la prescelta si prese una cotta per me e Tony beh, rosicò. Era buono, un po’ se la tirava… Mica era colpa mia se piacevo… ero bellino, magro, atletico, facevo pugilato, scherma, judo». 
Cantava: «“Era la donna mia ed ora non c’è più, io l’ho mandata via, poi l’hai presa tu” e “il suo amore non sarà più mio, penserò a quel bacio prima dell’addio”, ma in amore non le andava poi male...». 
«Ah no, in Scandinavia le ragazze me le ritrovavo in camera, alcune mi toccava cacciarle… che glielo dico a fa’. Lì c’era l’usanza di lasciare le scarpe fuori dalla camera, in hotel, per farle lucidare, me le rubavano le ammiratrici. Quante ne avrei da raccontare, purtroppo non ho più tanta memoria, mannaggia all’ictus del 2016, mi è rimasta una gamba più corta, cammino col bastone e ogni tanto mi confondo… Ecco, sì, a Sanremo una cantante americana allora molto famosa, Timi Yuro, mi agguantò e mi buttò in una siepe. Una ballerina francese mi chiuse in camera con lei e lanciò la chiave dalla finestra. Io però ero un romantico, per andarci a letto dovevo provare almeno un po’ di sentimento». 
Flirt con qualche collega? 
«Beh, al Festival ho conosciuto Orietta Berti che era giovanissima, molto caruccia, voleva che la accompagnassi a cena… mi batteva i pezzi… ma per me era un’amica. Nilla Pizzi mi bussava alla porta e Carla Boni mi sussurrava: “Sai, ho una certa esperienza”, ho finto di non capire». 
Ha dato buca pure ad Alberto Sordi. 
«Mi mandò a chiamare, voleva che andassi a trovarlo a casa sua, ma avevo un appuntamento con una ragazza… Con Marcello Mastroianni invece passai un pomeriggio a chiacchierare. Mi raccontò che ogni volta che andava a Mosca gli dicevano sempre: “Ah, sei italiano come Robertino!”. Mi regalò una stilografica con il pennino d’oro: “Ti auguro di firmarci centinaia di autografi”». 
Era vicino di casa di Sophia Loren. 
«Comprai una villa a Marino a duecento metri dalla sua. La incrociavo ogni tanto. Passava in Rolls Royce, la salutavo, non ricambiava. Più simpatica Ursula Andress, abita qui a Zagarolo come me. Ci chiacchiero spesso. “Eh… non mi facevi dormire la notte”, le ho confidato. Mo’ basta invece, per certe cose non ho più fantasia». 
Ha avuto più successo all’estero che in Italia. 
«Qui per lavorare dovevi accettare dei compromessi… delle proposte… appena sentivo una mano sul ginocchio partivano certe pizze... Oppure qualche produttore mi chiedeva soldi per lanciare un disco, no grazie, addio». 
In Russia è un idolo, come Albano, Toto Cutugno e i Ricchi e Poveri. 
«Sono arrivato prima io. Ho conosciuto Eltsin, brindava alle mie canzoni con la vodka. Gorbaciov si estasiò per “Santa Lucia”, Putin invece l’ho solo intravisto, impettito, non guarda in faccia nessuno, mi ha dato una botta con la spalla, passando, che quasi mi faceva cascare. Avrei voluto sfidarlo a judo, sono cintura nera». 
Meglio di no. 
«Eh. Comunque ho fatto concerti anche in Moldavia, Ucraina, Lettonia, Lituania, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, purtroppo mi sono dovuto fermare che la salute se n’è andata. L’anno scorso poi ho perso mio figlio Francesco, aveva due tumori, era tanto bravo, dolce, un tesoro, l’ho portato dai migliori professori, non c’è stato niente da fare, è il mio grande dolore. Ora mi scusi, devo andare, alle sei di ogni pomeriggio recito il Rosario, l’ho giurato a mamma».