La Lettura, 8 maggio 2022
Su "Un Occidente prigioniero" di Milan Kundera (Adelphi)
Una mattina del 1975 la polizia perquisì l’appartamento del filosofo ceco Karel Kosik e confiscò un manoscritto di mille pagine frutto di una decina d’anni di lavoro. Dopo poche ore, Kosik camminava per le vie di Praga in compagnia del suo amico Milan Kundera: scherzava immaginando i poliziotti alle prese con il linguaggio filosofico, ma prevaleva l’angoscia per aver perduto quel lavoro di cui non aveva nessuna copia. I due amici pensarono di inviare una lettera a una grande personalità europea per aprire uno scandalo internazionale: ma a chi rivolgersi? «Comprendemmo d’improvviso che quella personalità non esisteva. Sì, c’erano grandi pittori, drammaturghi e musicisti, ma non occupavano più nella società il posto privilegiato delle autorità morali che l’Europa avrebbe accettato come suoi rappresentanti spirituali».
È Kundera a ricordare l’episodio in un famoso articolo uscito nel 1983 sulla rivista «Le Débat». L’articolo, che si intitolava Un Occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale e che fece all’epoca molto discutere, viene pubblicato ora da Adelphi. Il libro è composto anche dall’intervento altrettanto famoso sulle piccole nazioni che Kundera pronunciò inaugurando a Praga, nel giugno 1967, il congresso dell’Unione degli Scrittori.
La camminata praghese si concluse con la constatazione che la cultura «non esisteva più in quanto ambito dove si realizzano i valori supremi» e i due amici si congedarono con un senso di solitudine e di vuoto. In realtà, poi, la lettera fu inviata a Jean-Paul Sartre, il quale rispose su «le Monde» contribuendo alla restituzione del manoscritto. Con un ulteriore pensiero, Kundera precisava, in quel 1983, che il giorno in cui Sartre fu sepolto pensò che la lettera del suo amico filosofo non avrebbe più avuto alcun possibile destinatario. Detto ciò, Sartre era quel tipo di intellettuale engagé che secondo Kundera aveva favorito l’«abdicazione della cultura come forza autonoma, specifica e irriducibile» (sono parole sue). Tutto, infatti, si può dire di Kundera tranne che sia un paladino dell’impegno in letteratura: ne è anzi un fiero avversario. Al punto da condividere la diffidenza verso l’arte dell’Est, noiosa e manichea nel voler veicolare «verità preconcette». Per ciò Kundera ammette di non aver mai superato pagina 150 de Il primo cerchio di Solženitsyn. E precisa che qualcosa di simile gli accade con Zinoviev.
Può sembrare paradossale questa sua presa di distanza, se si pensa che Kundera diventa, appena approdato in Francia con la traduzione de Lo scherzo, l’incarnazione del dissidente. «Mia moglie — ha detto — mi prende spesso in giro: “Tu sei arrivato a Parigi come un vincitore sui carri armati russi” (...), tutti elogiavano il coraggio con cui avevo lottato contro il totalitarismo. Ma quando stavo scrivendo Lo scherzo io non mi sono mai sentito particolarmente coraggioso. La mia sfida non era politica, ma solo estetica».
Se c’è un punto in cui Kundera parla in senso positivo dell’engagement è quando, ne I testamenti traditi, evoca lo «straordinario impegno» dell’editore di Beckett, Jérôme Lindon, «nel dare a un’opera una forma definitiva»: la sola accezione condivisibile di impegno è in nome dell’integrità dell’opera in sé. Si dirà che con I testamenti traditi siamo nel 1994, quando (quasi) tutti i giochi sono fatti. Non è così. E lo dimostrano i due scritti del 1967 e del 1983, dove il rifiuto della politica può apparire ancora più paradossale, visto che Kundera vi svolge un discorso essenzialmente politico per rivendicare la superiorità della cultura, della letteratura, dell’arte. Con una dichiarazione di fiducia commovente: «Qualsiasi forma di interferenza nella libertà di pensiero e di espressione — indipendentemente dal metodo e dalla qualifica di tale censura — è nel XX secolo uno scandalo, nonché un pesante fardello per la nostra letteratura in pieno fermento». Una politica degna di questo nome «sa anteporre gli interessi sostanziali a quelli immediati». E qual è il primo interesse? In un momento drammatico del suo Paese, Kundera non ha dubbi: la grandezza della cultura.
Pagine da consigliare ai nostri politici, italiani ed europei. Nel primo intervento, alla vigilia della Primavera di Praga, Kundera, che con il suo primo romanzo è diventato un autore di successo, si colloca con decisione dalla parte delle «piccole nazioni dell’Europa centrale»: rivendicandone il primato culturale contro ogni interferenza dei «vandali» dell’ideologia e della burocrazia. La cosa sorprendente è che quando Kundera parla dei «vandali», pensa soprattutto ai letterati di regime che distruggono le statue ritenute inutili o dannose, quelli che «vivono solo un presente decontestualizzato» ignorando la continuità della storia. È passato più di mezzo secolo, tuttavia sembra che lo scrittore ceco descriva non solo il clima sovietico incombente a quel tempo ma l’atmosfera di cancellazione che imperversa oggi. Kundera la definisce ironicamente «superba ristrettezza di vedute» di chi si arroga il diritto di adeguare il mondo alla propria immagine.
Non solo il prestigio di una nazione, specie se piccola: è la sua stessa sopravvivenza a essere garantita dal grado di istruzione dei suoi cittadini, dalla forza con cui la propria lingua veicola la letteratura. Nessuna conquista è mai definitiva, per i cechi come per i polacchi o per gli ungheresi, perché le piccole nazioni sono «non-certezze» e come tali devono sempre guadagnarsi un’esistenza mai cessando di avvertire la propria vulnerabilità. Ci penseranno presto i carri armati sovietici a tacitarlo, ma intanto può cautamente dire che «se oggi da noi le arti prosperano, è solo grazie ai progressi della libertà di pensiero». La domanda-chiave che Kundera pone al suo Paese è a suo modo spietata: «Il valore culturale del nostro popolo è tale da giustificarne l’esistenza?». Non le armi, dunque, la letteratura, il cinema, l’arte potevano contrastare e magari dissolvere un sistema politico oppressivo. La vitalità di quella «età dell’oro» delle arti, per Kundera, avrebbe rappresentato la premessa essenziale della Primavera di Praga.
Diciamo la verità, quanti di noi oggi sarebbero pronti a sottoscrivere la fiducia espressa da Kundera nel 1967 senza cadere nella tentazione di ritenerlo un’anima bella quando afferma che la sopravvivenza del suo popolo è responsabilità che ricade sulla qualità della letteratura ceca: «dalla sua grandezza o angustia, dal suo coraggio o dalla sua viltà, dal suo provincialismo o dalla sua portata universale tale sopravvivenza dipende in larga misura». Forse lui stesso oggi, rileggendo quelle parole, metterebbe su un sorriso disilluso, ma niente di più. Del resto, già nel 1983 era cambiato quasi tutto: Kundera si trovava in esilio a Parigi da otto anni e aveva i pensieri sul dopo-Sartre che abbiamo appena ricordato. Eppure, anche a quell’epoca Kundera affermava la sua convinzione sul valore culturale dell’Europa centrale (la Mitteleuropa), dove vige «il massimo di diversità nel minimo spazio», all’opposto della Russia che si fondava (si fonda!) sul principio opposto: minime diversità nel massimo dello spazio. L’incipit dell’articolo sull’Occidente prigioniero è folgorante. Puro stile Kundera: chiarezza e forza argomentativa.
Era il 1956 quando il direttore dell’agenzia di stampa ungherese, sapendo che nel giro di qualche minuto il suo ufficio sarebbe stato distrutto dall’artiglieria sovietica, trasmise al mondo un messaggio via telex che terminava con questa frase: «Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa!». Perché l’Europa? Era un richiamo, in extremis, all’eredità storica e all’identità culturale del suo Paese, la sensazione che l’invasione sovietica fosse una minaccia non solo per l’Ungheria ma per l’Europa. Certo, sarebbe interessante sapere da Kundera se tutto ciò resta valido anche alla luce dell’Ungheria di Orbán... Fatto sta che allora era tanto più incomprensibile, per l’autore del Libro del riso e dell’oblio, che l’Occidente continuasse ad assistere nell’indifferenza alla sparizione di un suo crogiolo essenziale, rappresentato dalla Polonia, dall’Ungheria, dalla Cecoslovacchia: l’Europa centrale non è uno Stato, dice Kundera, ma «una cultura o un destino». Come spiegare, altrimenti, le «maestose» rivolte che fra il 1956 e il ’70 si sono accese in quei Paesi, che agli occhi dell’Occidente non erano altro che parte del blocco sovietico? Rivolte sostenute non dalle élite ma dalla popolazione e come tali «impensabili in Russia».
Qui si apre un discorso pacato e insieme travolgente, dove compaiono gli autori amati da Kundera: Kafka, Musil, Broch, Miłosz, Brandys, Gombrowicz, Werfel, Kiš... E i compositori, Bartók, Stravinskij... E si avvertono punte molto aspre. Non soltanto contro le ambizioni secolari di russificazione implacabile. Non soltanto l’accusa all’Europa che se non ha notato la scomparsa del «crogiolo letterario centroeuropeo» è perché «non sente più la propria unità come unità culturale». Anche l’accusa di mistificazione attribuita all’«ideologia slava»: «Ai russi piace definire slavo tutto ciò che è russo, in modo da poter poi definire russo tutto ciò che è slavo». E lo stesso Conrad riteneva ridicolo affibbiare alla Polonia delle presunte profondità oscure e sentimentali che sarebbero tipiche dello «spirito slavo». «Come lo capisco!» esclama Kundera. Introducendo la commedia Jacques e il suo padrone, del 1981, Kundera ricordava un aneddoto su cui vale la pena riflettere oggi. Il terzo giorno dell’occupazione sovietica di Praga si trovava in auto e venne fermato da soldati russi: dopo aver ordinato la perquisizione della macchina, l’ufficiale chiese in russo allo scrittore: «Come si sente? Che cosa prova?». E aggiunse: «È solo un gran malinteso. Ma tutto si sistemerà. Voi dovete capire che noi amiamo i cechi. Noi vi amiamo!». Postillava Kundera: «Il paesaggio sfigurato da migliaia di carri armati, il futuro del Paese compromesso per secoli, gli uomini politici cechi esautorati e arrestati — e un ufficiale dell’esercito di occupazione veniva a farmi una dichiarazione d’amore». Vi ricorda qualcosa?