il Giornale, 8 maggio 2022
Il dizionario delle ricorrenze ceronettiane
In ogni scrittura di Guido Ceronetti, sotto il velo apocalittico, si cela l’apocrifo, il dio della burla, la pernacchia, il carnevale permanente, i mostri fatui e famelici di Hieronymus Bosch, «El Bosco». Così, quando leggiamo della «donnina a dondolo» («la sua faccia è liscia e sorridente, piccola come le vere gioie, si nutre di miele e lenticchie, e neppure tutti i giorni»), dei «ragni scriventi» (la cui «preferenza va agli alfabeti antichi, protofenicio, lineare B, runico») o dell’«assaggiatore di rasoi», che «sapeva, di qualsiasi rasoio, dire le caratteristiche e la casa produttrice, e perfino (sebbene questo fosse illegale) il destino, talvolta, di strumento omicida», dovremmo maneggiare, per gioco esegetico, il trittico del Giardino delle Delizie (è al Prado) e sfogliare La carta è stanca (Adelphi, 2000), pagina 105, dove Ceronetti, in un articolo su Bosch, ci spiega che «l’aquilegia androgina», segno dell’«unione mistica tra umano e mistero», è, non a caso, «nel cuore del Giardino delle Delizie, ne rafforza l’ambiguità». Ossessione dei ricorsi esoterici, alchimia di ricami e riferimenti: Aquilegia (Rusconi, 1973; poi Einaudi, 1988) è la prima opera narrativa di Guido Ceronetti, che del torinese aveva l’ansia regicida, il senso dell’insensato, l’idea che il Graal, in fondo, non sia diverso da un orinatoio.
In sintesi: D.D. Deliri Disarmati (Einaudi, 1993; ora in nuova edizione, pagg. 220 euro 19,50) più che altro è un dizionario delle ricorrenze ceronettiane, un’enciclopedia del bislacco e dell’astruso, da usare come libro della buona notte, ottimo antidoto a vincere la ragionevolezza del nostro tempo, satanico. Primo esempio. La lúnia (explicit: «L’uomo è brutto e la luna noiosa. Stanco di vederla, col permesso di Dio appenderò in cielo in sua vece un armadio dipinto, che chiamerò lúnia») è un racconto che va letto condizionati da questa considerazione, pubblicata da Ceronetti su Belfagor, nel 1970, con il titolo Intatta luna: «Tutte le imprese spaziali, con o senza partecipazione umana, alle quali abbiamo assistito e assisteremo, sono volgarità pura, prodigi di arte demoniaca senza sapienza, illusionismo di Stato per alte vertigini, un pugno di calcoli incredibilmente esatti e una spaventosa povertà di mente, una nullità che terrifica. Basta ascoltare uomini di scienza, tecnici, cavie umane, statisti, scrittori, le loro colature di stupidità».
Secondo esempio. All’accendersi delle candele, memorabile fiammifero lirico intorno alla vita invisibile di Konstantinos Kavafis («Oggi il poeta che parlava poco e senza mai alzare voce, operato alla gola, è afono, e presto al n. 10 della via Lepsius, ad Alessandria, le candele non si accenderanno più»), va letto leggendo Un’ombra fuggitiva di piacere (Adelphi, 2004), la raccolta di traduzioni ceronettiane da Kavafis, gorgheggiando quella poesia, Perché tornino, che fa così: «Mi basta una candela. Il suo lume gracile/ Meglio propizia, con più pietà, l’incontro/ Coi fantasmi, che tornano, d’amore». E magari – speleologia nella meraviglia – procurarsi un articolo, Morbosità di Kavafis, in cui Ceronetti, maestro nell’arte di vetrificare il verbo in cammei pieni di riverberi, erotici per claustrofobia, accerchia il poeta: «Aveva eletto la sua prigione. Viveva in una città orientale arabo-levantina – che di sodomie, omofilie, incontri e passioni tra maschi, tutto quel che Kavafis intende come amore greco ne tollerava, anzi ne favoriva quanto la Roma di Adriano o la Cordoba degli Ommayadi – come se fosse stato a Reading».
Quando, in Dio telefona, si accenna alla Notte stellata di van Gogh, non si può non pensare alla catastrofica intervista – concessa a Radio Radicale il 21 dicembre del 2014 – in cui Ceronetti ha detto: «io metto Rimbaud tra i profeti e per me van Gogh è un messia». In quella occasione, Ceronetti, messianico, lanciò una serie di bordate contro Pasolini, «lo detestavo... era proprio raccapricciante io sentivo proprio il guasto in Pasolini, avevo un ribrezzo fisico verso di lui, poi la voce». Il rapporto tra i due, d’altronde, diversamente corsari, agli antipodi, inacidì da subito: nel 1973 Pasolini maledì la «traduzione del Libro di Giobbe» di Ceronetti – con saggio annesso -, «un falso completo», greve esempio di «teppismo dandystico». Ceronetti, gnostico narcisista, colpì di lato: a Sergio Quinzio raccontò che Pasolini «ha la forma mentis del limitato», su L’Espresso, il 19 novembre del 1978, precisò il tiro, ammanettando Pasolini nel cappio di un aforisma degno di Marziale (tra i suoi lari): «Privo di genio satirico, di ironico specillo, era un quaresimalista monotono e povero. Il vecchio brodo cattolico italiano, con dentro il dado Liebig marxista, nel fumo di un’ossessione erotica paralizzante». Nel fatidico saggio al Libro di Giobbe (che risulta «temporaneamente non disponibile» per Adelphi, perché?), Sulla polvere e sulla cenere, Ceronetti parla di un «teatro mirabilmente gestuale» dove «Giobbe si gratta, si dimena, balla sul vuoto, implora». I testi biblici tradotti con ebbra libertà sono sabba, ballo di specchi contrapposti, incedere nella contraddizione, incendio e formula magica: «Imparare la Magia, le arti magiche; farle imparare ai figli, non i diplomi... Perché chi ci protegge? Chi ci difende? La religione? L’autorità? La scienza?», scrive Ceronetti in uno dei micidiali Pensieri del tè (Adelphi, 1987). Nel più bello tra i Deliri Disarmati, poco più che biscotti di caos, si racconta del marionettista Ernestino Lubiscio, «sbonconcellato, smembrato» dalle sue «terribili, voracissime, crudelissime marionette». Oh, certo, i parenti prossimi di Ceronetti sono sempre quelli, Alfred Jarry e Alfred Kubin, il rantolo di Qohélet raccolto a Rodez, tra le gambe di Antonin Artaud; l’oggettistica sabauda di Guido Gozzano, il candore di Marcel Schwob, le visioni di William Blake, gli oli di Franz von Stuck. Ha tradotto in versi Céline («Bisogna scegliere: o morire o mentire»), Ceronetti, al Teatro dei Sensibili leggeva Georg Trakl, Dylan Thomas e Varlam alamov; ha scritto troppo, ha scritto poesie, insegnando che «va ripudiata come la Grande Infetta, come l’Innominabile Immondizia ogni parola facilmente mangiabile» (in: La distanza. Poesie 1946-1996, Bur, 1996).
Povero Ceronetti: faranno di lui un bislacco arlecchino, uno stravagante. Soffriva di lucidità, piuttosto, sarchiò l’oscurità fino al riso, i suoi libri sono labirinti dove il mostro è un vagolare di coriandoli, odore in assenza di Minotauro. Per fortuna, l’arbitrio fantastico e la profezia non fanno parte della letteratura in generale, di quella italiana in particolare, in cui Ceronetti ha il ruolo del trickster, del furfante, del sacro paria. Diceva di riconoscersi «nel Tarocco N. 9, l’Eremita» che «procede a piccoli passi con un bastone bianco da cieco, e un serpente lo guida». Aveva il viso da volpe, bestia dalle molteplici forme, traduceva Eraclito come commentava il Divin Marchese o simulava l’Ultima lettera di Eloisa. Combatteva le tenebre.