Sette, 6 maggio 2022
Biografia di Alessandro Benetton raccontata da lui stesso
Nascere con un cognome così...
«La fermo subito. Sì, è una fortuna. Ma non per quello che comunemente e anche giustamente si può pensare. Grazie a una famiglia fatta di persone di poche parole ma gran lavoratrici, è stato creato qualcosa di unico. Ma la mia vera fortuna è avere avuto la forza di dire tanti no. “No” a mio padre, “no” a mio zio e a miei zii, “no” alla famiglia, “no” ai manager. Tutti quei “no” necessari a cercare e costruire la mia strada. I “no” alle scelte facili, anzi, forse persino con troppa testardaggine, il voler fare qualcosa di mio. E chissà se proprio grazie a quei “no”, oggi mi ritrovo qui».
Alessandro Benetton abbassa la voce. Sembra pensare alle parole appena pronunciate. Pare di vederlo, il “giovane” della dinastia trevigiana, che si defila da quello che era un gruppo con 7 mila negozi nel mondo, sparsi in ogni angolo della terra, da Teheran a Pechino passando per Mumbay e Buenos Aires. Un gruppo diventato poi un impero con dentro tante altre attività. Anche qui, forse troppe? Quei “no” nonostante i successi, persino in Formula 1, scoprendo un signore che ancora oggi è nel cuore dei tifosi, Michael Schumacher. E che ha spinto Flavio Briatore a dire di lui: «Alessandro è uno di quelli che ce l’hanno fatta “nonostante” la famiglia». Ma anche i “no” a come è stata affrontata una tragedia — quella del crollo del Ponte Morandi, a Genova — che ha fatto anch’essa il giro del mondo. Era il 2018: giorni d’agosto di dolore, strazio per le famiglie delle 43 vittime. Alessandro Benetton non avrebbe voluto quei silenzi nei giorni di pioggia della tragedia, dice. E scrive. Sì, scrive in un libro. Che è la sua storia.
I punti de La traiettoria (così si intitola, in uscita il 10 maggio per Mondadori), della costruzione di un uomo, di una persona. Non di un gruppo, tantomeno di un’azienda. Anzi, la battaglia continua per farsi la sua storia. Anche se è alle prese con un’Opa, quella su Atlantia, che potrebbe essere la maggiore operazione finanziaria d’Italia.
Lo vede? Per quanto ci giri attorno il cognome conta...
«Si, conta. Conta come quel ceffone di mia mamma che a sette anni, ero in seconda elementare, mi becco con la frase che mi accompagnerà per la vita: “Che figura fai fare alla famiglia?”».
Cosa aveva combinato?
«Come scrivo nel libro, nella mia scuola figli di contadini e impiegati, operai e primi imprenditori, spartivano aula e banco. Tanto per dire, la maestra Rosa, intelligente quanto magnanima, se ne poteva uscire con frasi del tipo: “Non dovete vergognarvi di non essere ricchi”».
Sì, ma il ceffone?
«Io sentivo dilagare in me la vergogna di esserlo, ricco. Perlomeno diverso. Anche perché mio padre, il “Signor Luciano”, aveva perso suo papà a dieci anni e si era dovuto rimboccare le maniche e anche se avevamo una casa costruita per noi, l’etica del lavoro era tutto. Mia mamma, figlia di un militare, aveva il senso del pudore. Insomma eravamo ricchi, ma io di soldi in tasca non ne avevo. E a volte, nella cartella non c’era la merendina, come avevano tutti i miei compagni».
E allora?
«Allora, grazie a un certo spirito di iniziativa, tentavo ogni tanto di farmene dare un po’ dai miei compagni. Ma la maestra se ne era accorta e aveva chiamato mia mamma. Risultato: un bel ceffone. E non fu nemmeno l’unico, le assicuro».
D’accordo l’etica ma qualche vantaggio...
«So benissimo di essere partito da una posizione di privilegio e di avere avuto opportunità incredibili, ma so anche che la mia vita - come quella di tutti - non è stata una passeggiata. È stata una maestra. Mi ha insegnato che ognuno di noi è ciò che fa quando gli capita quello che non si aspetta. Che, spesso, per capire chi si è bisogna scegliere la strada più scomoda, la meno battuta, la meno scontata. Che per pensare in grande è necessario esporsi, rischiare, uscire dalla propria zona di comfort: dalla rassicurante familiarità di ciò che già conosciamo».
Ma ci voleva proprio un libro?
«È stata in verità una gestazione un po’ lunga, durata qualche anno... Ho cominciato a pensarci in occasione del mio cinquantesimo compleanno. Una delle poche occasioni in cui, invitando i tanti amici e compagni di scuola del passato, ho guardato indietro invece che avanti. In quel momento mi sono tornati tra le mani alcuni temi che avevo scritto a scuola a 10 anni, li leggevo e rileggevo, li trovavo attuali e mi ci rispecchiavo».
Un libro che è la vita di un uomo che senza reticenze scorre con gli inciampi, le risate, i dolori...
«Ho pensato soprattutto ai giovani con cui in questi ultimi anni ho iniziato un intenso dialogo sui social: mi sono reso conto che raccontare la mia vita e le mie esperienze era d’aiuto a molti che mi chiedevano di saperne sempre di più. E ad un certo punto ho immaginato potesse essere utile anche per gli altri».
Ma quindi bisogna essere sempre in dissenso e avere battute d’arresto?
«Non ho intenti rivoluzionari nel parlare di “infrangere le regole”, parlo della capacità di ritagliarsi i propri spazi con convinzione, anche quando ciò significa avere un’idea diversa dalle persone che ti circondano, in particolare quando significa dissentire dalle tue figure guida. È un processo formativo importantissimo».
Il ”Signor Luciano”... perché lo chiama così?
«Mio padre è un visionario: negli anni 60 ha rivoluzionato il mercato dell’abbigliamento. Prima di lui le cose si facevano in un modo, dopo si facevano in modo diverso. In questo libro ho cercato di ricordare e trasmettere le sensazioni che provavo da ragazzo, crescendo, in tutte le situazioni che vivevo. E mio padre, per un lungo periodo, non è stato solo un padre, ma anche “il Signor Luciano”, appunto. Così lo sentivo chiamare intorno a me, e il Signor Luciano ha sempre rappresentato quel lato di mio padre che metteva il lavoro davanti a tutto, a volte anche davanti al suo essere padre. O almeno questa era la mia percezione ai tempi. La sfera affettiva ha sempre dovuto per forza di cose convivere con quella pubblica dovuta alla sua posizione e a quella della mia famiglia, e ai tempi non è sempre stato facile rapportarsi a questa dimensione così particolare».
Però una notte vi sveglia addirittura.
«Sì, dormivamo e sentiamo papà che ci chiama. Era il 20 luglio 1969. Scendiamo e ci fa cenno di sederci sul divano con lui. L’uomo stava atterrando sulla Luna. Ci dice “è un fatto storico”».
E vuole dividerlo con voi, con nessun altro. La sua severità, che nel libro è evidente, sembra quasi figlia del voler trasmettervi principi, valori. In fondo avrebbe potuto “comprarvi” con un motorino, con più soldi per divertirvi...
«Per lui era più importante fortificarci, renderci più solidi, darci un’etica. E poi, ripeto, quando si è grandi ci si dimentica di come si ragionava da piccoli... Quello che è stato costruito è sotto gli occhi di tutti, uno dei più grandi miracoli italiani».
Del resto suo padre fa parte di una generazione abituata a parlare molto poco, soprattutto con i figli. C’era un Paese da ricostruire.
«Mio padre mi ha insegnato moltissimo, d’altronde, uno dei suoi mantra è sempre stato “impara a percorrere la tua strada da solo”, e così ho voluto fare. Non mi ha mai fatto nessuno sconto e mi ha insegnato che bisogna arrangiarsi nella vita. Non posso perciò che essergli grato, soprattutto oggi da padre riconosco che alcune volte bisogna correre il rischio di non essere troppo protettivi e di orientare i propri figli verso il futuro, la sfida e le scelte coraggiose. Come quando mi arriva la lettera del ministero dell’Economia».
Che lettera dal ministero dell’Economia?
«Un giorno, più di 10 anni, fa mi arriva una lettera del ministero dell’Economia. Mi proponevano la nomina a Cavaliere del Lavoro. Abituato ed educato a essere severo con me stesso, penso di non avere fatto ancora abbastanza per accettare. La mia creatura, la 21 Invest, è già bella grande, tante aziende, tanti dipendenti, ma mi sembrava ancora troppo poco».
Ma poi al Quirinale, Napolitano le appunta la decorazione, a 46 anni...
«Eh sì. Non era possibile rifiutare. D’accordo che voglio arrivare sempre più in là, ma anche la falsa umiltà non mi piace. Qualcosa di buono l’avevo fatto. E quando stringo la mano al Presidente mi volto e vedo i miei e mia madre: chi l’avrebbe detto, mamma? Pensa alle volte che hai dovuto recuperarmi nelle sale del biliardo».
È la mamma dei ceffoni...
«In maniera diversa, entrambi i miei genitori hanno posto sul mio cammino dei paletti con cui ho imparato a disegnare traiettorie. Ha anche lei luminosissime contraddizioni. Pensi, è una pilota spericolata. Con la sua Due Cavalli ci accompagnava a scuola a tutta velocità. A 81 anni caricherà i miei tre figli a Treviso per portarli in Toscana, beccandosi una multa per eccesso di velocità. Del resto avrei dovuto capirlo quando, entrando in un concessionario, le chiesero che tipo di auto volesse rispose: “Veloce e che sorpassi in fretta...”. Ma quella carezza sul mio capo quando sono stato bocciato me la ricordo ancora».
Bocciatura?
«Sì c’è stato anche questo nella mia vita. In seconda liceo. Ero un adolescente un po’ ribelle, in fondo, come molti, cercavo di capire chi fossi senza seguire le regole dettate da altri. Pomeriggi passati a truccare e a far impennare i motorini, la scoperta delle sale da biliardo... Ammetto che i rudimenti della leadership e dei processi di valutazione del rischio non li ho appresi sui banchi ma li ho coltivati stando all’aperto, e che devo molti dei trucchi che tuttora serbo nella mia cassetta degli attrezzi di comunicazione e marketing ai giovanili tentativi di conquistare le ragazze omettendo dalla conversazione il mio cognome e cavandomela per strada».
Ma adesso ha tre figli: Agnese, Tobias e Luce. E hanno deciso di vivere con lei. Sta impartendo la stessa rigida educazione ai suoi figli?
«Ho instaurato con i figli un rapporto diverso rispetto a quello dei miei genitori, con un dialogo più parallelo e meno verticale. Penso che l’autorevolezza si raggiunga anche e soprattutto attraverso l’empatia. Condivido con loro viaggi, percorso di studi, prime esperienze lavorative, visite culturali. Li invito a farsi domande e ad allargare sempre lo sguardo, facendo cogliere le caratteristiche e le inclinazioni di ciascuno, evitando di imporre una direzione, una traiettoria appunto, ma spingendoli a cercare la loro».
Funziona?
«Non lo so, dovreste chiederlo a loro! Sicuramente stare sui social e aprirmi alle curiosità del mondo dei giovani mi è stato d’aiuto».
Villa Minelli, la grande famiglia... Emerge l’orgoglio di chi racconta dal di dentro la storia di un brand divenuto famoso in tutto il mondo con il desiderio però di affrancarsene...
«Non mi sono mai vergognato del mio cognome, anzi, è proprio il contrario. Ma ciò che mio padre (insieme al resto della famiglia) ha realizzato rischiava di farmi vivere come all’ombra di un gigante, e per uscire da quell’ombra ho dovuto (ho voluto) camminare tanto, trovando la mia traiettoria».
Decide così di dar vita ad una sua attività in proprio, 21 Invest...
«In particolare negli incontri dal vivo, i giovani mi chiedono spesso di raccontare come ho affrontato le singole sfide imprenditoriali, di come ho scelto le aziende su cui investire, cosa abbiamo fatto per rilanciarle, quali tecniche abbiamo usato... è per questo che riporto nei dettagli di Trudi e del tentativo abortito di Sei Milano, del cambio di paradigma con The Space Cinema e di Forno d’Asolo, di Farnese Vini...21 è la creatura a cui ho dedicato 30 anni della mia vita».
E il curriculum cresce ...
«Ma vede, dietro ad un imprenditore non c’è solo curriculum, c’è una persona e dietro una persona ci sono tante cose, tante caratteristiche dettate anche dalle emozioni. In un curriculum non c’è scritto quando una persona ha imparato a risollevarsi dai “momenti no”. Soprattutto professionali».
Ma anche le relazioni sentimentali...
«Anche quelle hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia vita. Con la voglia sempre di non farsi schiacciare dai “non detti”».
Le riuscirà con la sua ragazza, che stava a Treviso mentre lei studiava a Boston, ma non con quella che rimane una delle persone a cui sembra essere più legato: Carolyn Bessette.
«Io e Carolyn non ci siamo concessi quel momento. Sgranare uno dopo l’altro i grumi che avevamo dentro. Non la incontrerò mai più. Morirà nel 1999 in un incidente aereo assieme al marito John Fitzgerald Kennedy Jr: andavano a un matrimonio a Martha’s Vineyard ed era lui a pilotare il Piper precipitato nell’Atlantico. Era capace di riattivare e stimolare ogni Alessandro che dimora dento di me: il ragazzo sportivo che fa scorribande, il giovane uomo con la ventiquattrore, il laureando di Harvard...».
Un Alessandro che davanti alla vicenda di Genova, al crollo del Ponte Morandi, ha un atteggiamento preciso.
«È una vicenda che peserà per sempre sulla mia famiglia e non smetterò mai di rinnovare la mia vicinanza alle famiglie delle vittime. Come ho già detto nel video di gennaio, avremmo dovuto subito chiedere scusa, a prescindere dal fatto che Edizione deteneva poco più del 30% di Atlantia nel cui consiglio, composto in maggioranza da amministratori indipendenti, sedeva un solo Benetton. In quelle ore a chi mi chiedeva pareri rispondevo con una sola parola: trasparenza. Straparlare o tacere sarebbe sbagliato in egual misura. Dobbiamo parlare: la parola è un atto volontario di apertura, disponibilità, umiltà».
Chissà se anche per questo oggi lei si ritrova alla presidenza di Edizione. Forse un libro serve anche a questo.
«No, guardi, ho iniziato a scrivere questo libro quando la presidenza di Edizione non era minimamente nei miei progetti, anzi. Le bozze sono state chiuse molto prima. Anche questo dimostra che la vita può prendere traiettorie inaspettate. Assieme ai miei cugini abbiamo accettato la sfida consapevoli di condividere una visione di discontinuità e sostenibilità. Si è trattato di ritrovarsi sui valori dei nostri padri che hanno fondato quello che oggi dobbiamo fortificare e far vivere nel tempo».