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 2022  maggio 07 Sabato calendario

Intervista a Laura Boella


La filosofa piemontese, nel corso degli anni, ha lavorato sul pensiero femminile Ne ha colto le sfumature ma senza mai farne una militanza dovuta o cercata “Da tempo mi sono ribellata alla narrazione dell’infelicità delle donne”
Un incontro può cambiare una vita, si dice. Ma anche assistere o immaginare di assistere a un incontro può contribuire al cambiamento. Ho letto con un certo stupore il libriccino (Con una voce umana, ed. Ponte alle Grazie) che Laura Boella ha voluto dedicare a due figure femminili che a metà del Novecento videro le rispettive luci incrociarsi: Maria Callas e Ingeborg Bachmann.
L’immensa cantante e la grande scrittrice e poeta tedesca. Laura Boella nel corso degli anni ha lavorato sul pensiero femminile, ne ha colto le sfumature, la diversità ma senza mai farne una militanza dovuta o cercata. Dice: «Ho scritto su alcune pensatrici del Novecento – Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano, Jeanne Hersch, Agnes Heller – nell’epoca in cui si trattava di portare alla luce una “tradizione nascosta” all’interno della filosofia».
C’è differenza tra pensiero femminile e femminismo?
«Nessuna delle pensatrici su cui ho lavorato è stata femminista, tranne Edith Stein. Quanto ad Arendt, Weil, Zambrano criticarono il femminismo emancipazionista del loro tempo, ma non dubitarono mai del loro essere nate donne. Nei miei incontri con loro ho cercato di non ridurne il pensiero a una sorta di canone filosofico alternativo. Oltretutto, molte se non tutte sono state allieve di grandi filosofi: Husserl, Heidegger, Ortega y Gasset, Jaspers, Lukács».
Che importanza attribuisci alla parola “incontro”?
«Gli incontri sono il cuore delle relazioni e di queste hanno la volatilità, la superficialità, l’inatteso, a volte la
capacità di resistere alla distanza e al passare del tempo».
Cosa ti ha colpito dell’incontro rapsodico tra Callas e Bachmann, consumato in un solo giorno eppure così intenso da meritare un libro?
«La prima cosa che mi viene in mente è che tra la Callas e Bachmann non è successo niente. Diversa la loro vita, diverse le loro ambizioni. Ma il loro è stato un incontro.
Tutto è infatti successo nel pomeriggio del gennaio 1956 nel Teatro alla Scala. Vuoto. E dentro quel “vuoto” si è manifestata la potenza dell’incontro, la capacità di irradiazione nella mente e nel cuore di una persona, non solo di un’artista, di un gesto, di una voce, della sorpresa e meraviglia che un’altra esista».
Bachmann va a una prova generale di “Traviata”.
Ama la musica. Ma le sembra di essere piombata dentro un’opera troppo conosciuta. È annoiata. Poi improvvisamente la voce di Violetta risveglia la sua attenzione. Sente che qualcosa di eccezionale si va realizzando. Tutto questo diventerà un articolo che Bachmann scrive su quell’esperienza. Che cosa accomuna le due donne?
«Erano quasi coetanee, entrambe belle ed eleganti; perfezioniste che non volevano essere perfette, perseguitate dall’indiscrezione sulla loro vita sentimentale, circondate dalla leggenda di una morte precoce che ha generato il mito postumo dell’artista, soprattutto quando è una donna, che paga il prezzo del genio con una vita infelice».
La letteratura ha spesso raccontato l’infelicità femminile.
«Da tempo mi sono ribellata a questa narrazione, spesso scaricata sulle nefandezze del mondo maschile,peraltro reali. Cos’è una vita felice o infelice? Non mi azzardo a dare una risposta a questa domanda.
Tornando a Callas e Bachmann, per me è importante che esse abbiano donato o fatto intravvedere – con il canto e con la poesia – a chi le ha ascoltate e lette una felicità che non fu la loro. Forse la credevano impossibile, ma sapevano esattamente che cosa fosse, come mostra il gusto, la bellezza a cui non hanno mai rinunciato, la passione con cui si sono staccate dal cinismo e dalla volgarità che le circondavano».
Hai usato per loro la parola “imperdonabili”
«Né a Callas né a Bachmann è stata “perdonata” una vita in cui la dedizione assoluta al canto e alla scrittura non le ha disincarnate, ma si è accompagnata a turbolenze, a odi e amori umani troppo umani. Si è andati a cercare nei loro desideri insoddisfatti la traccia della mancanza di una vita ordinaria (figli, amori felici).
Ci si è mai chiesti se era proprio una vita di questo genere quella che desideravano?».
“Imperdonabili” è anche il titolo di un altro tuo libro che raccoglie una serie di voci femminili. Quanto devi a Cristina Campo?
«Il termine fu lei a coniarlo e raffigura l’imperdonabile con l’immagine del cinese che dopo la rivolta dei Boxer, davanti al plotone di esecuzione, sta immobile assorto nella lettura di un libro, forse il “libro perfetto”, commenta la Campo. Anche le mie imperdonabili – da Marina Cvetaeva a Etty Hillesum a Milena Jesenská – lo sono diventate reagendo, a un mondo massificato, con la loro tenacia dello scrivere sempre, con la fedeltà alla vocazione poetica e letteraria, con la spregiudicatezza della loro vita».
Ti senti all’altezza di quella spregiudicatezza intellettuale?
«Basta seguire i propri istinti culturali, con i soli maestri che ho incontrato: i libri e coloro che li hanno scritti.
Sono sempre stata estranea alle scuole universitarie e ai relativi “baroni”. Ho letto Lukács, Adorno, Benjamin scoprendo che i loro pensieri erano come delle lettere destinate a me. Ho continuato in questo spirito, anche dopo la laurea, quando ho scoperto l’amicizia di Lukács e di Bloch».
Dove sei nata?
«A Cuneo nel 1949. Ho una sorella più grande e una sorella gemella. Mio padre Umberto Boella insegnava latino e greco al liceo classico. Poi ebbe un incarico di grammatica latina all’università di Torino. Mia madre, Maria Cerrato, insegnava filosofia e pedagogia alle magistrali, quindi divenne preside. Le ho rimproverato la scelta di lasciare l’insegnamento per un incarico burocratico».
Come sono stati i rapporti con i tuoi?
«Non erano idilliaci e per questo scelsi nel 1967 di andare a studiare a Pisa, distante da Cuneo. Vinsi il concorso in Normale, che allora non dava solo la possibilità di accedere alla classe di Lettere ma anche a Giurisprudenza presso il Collegio Medico-Giuridico che in seguito si è reso indipendente e oggi è la Scuola Superiore Sant’Anna. Mi sono iscritta a Giurisprudenza, sempre per deviare dall’eredità familiare. E non me ne sono mai pentita».
Come sei passata alla filosofia?
«In realtà non c’è stato un vero passaggio. Il diritto mi ha dato una quadratura mentale ma in definitiva mi sono laureata in filosofia del diritto con una tesi su Lukács. Erano anni di grande fermento politico, le occupazioni si univano strettamente in Normale alla ricerca culturale. E il marxismo, a quell’epoca, era pienamente nell’orizzonte delle attività teoriche da intraprendere. C’era a disposizione una biblioteca fornitissima, tutti i testi in lingua originale. Questo faceva un po’ la differenza con altre università».
Non hai uno stile accademico. Che valore dai alla scrittura?
«È una lotta scrivere: tengo ben distinta la scrittura letteraria, che richiede un altro tipo di talento, dalla scrittura filosofica. Con il passare del tempo però mi sembra di essere sempre più insoddisfatta. La domanda fondamentale è che cosa significa per chi fa filosofia parlare con la propria voce. Ho sempre avuto l’impressione che colleghi e amici non mi abbiano trovata dove pensavano che mi trovassi».
Intendi dire di essere stata fraintesa?
«Sia che mi occupassi del marxismo critico del primo Lukács, della Scuola di Francoforte, della filosofia della speranza di Ernst Bloch, della teoria politica di Hannah Arendt o del pensiero femminile e femminista, la sensazione era spesso di dare l’impressione di stare sempre un po’ altrove».
Forse alla ricerca di una voce davvero tua?
«Il problema della mia voce non è quello di dire la mia, scrivendo magari l’ennesima filosofia che so delle emozioni, dell’odio, dell’amore. Oppure un romanzo filosofico, tentazione da cui mi guardo bene. Il problema è lo schermo protettivo del “che cosa so”».
Cioè?
«L’eccesso di sicurezza per tutto quello che ho appreso. Forse, fuori tempo massimo, sto imparando a non difendermi. Il libro sulla Callas e Bachmann è statoin questo senso un ottimo esercizio. Ho l’impressione a volte che sui miei scritti incomba l’ombra del libro mai scritto».
Forse il libro “perfetto” cui alludevi accennando alla Campo.
«È il libro che non c’è, il vuoto o la mancanza e allo stesso tempo l’ombra fattiva, come sosteneva George Steiner, parlando dei libri che non aveva scritto. Quel libro disegna meglio i limiti e fornisce significato a ciò che comunque resterà incompiuto».
Qualcosa di definitivo invece è stato scritto riguardo alla guerra da pensatrici come Arendt, Weil, Zambrano, Bespaloff.
«Sono felice che citi anche Rachel Bespaloff, è straordinaria non solo per il saggio sull’Iliade. Quanto a Arendt e Weil hanno guardato alla guerra e alla forza con profondo senso di realtà e questo le distingue dai loro contemporanei che usavano il filtro di ideologie o teorie».
Cosa intendevano per senso di realtà?
«Qualcosa di paradossale: da un lato, la presa d’atto di ciò che accade nella sua irrimediabile durezza; dall’altro, la volontà di capire e penetrare nei meccanismi, qualcosa di diverso dalla ricerca delle cause, qualcosa che mira a fare i conti con l’inedito, l’imprevisto, il senza precedenti e per questo occorrono nuove parole e nuovi strumenti di conoscenza. Quantodi più vicino a ciò che viviamo oggi. Zambrano nel suo capolavoro La tomba di Antigone lavora diversamente: vede la storia e la politica composte di due strati: la violenza, con il suo sacrificio di innocenti, e lapietas che introduce la legge dell’amore».
A proposito di pietas e di legge dell’amore hai lavorato in questi anni sul tema dell’empatia. Che ruolo le assegni?
«Fin dall’inizio della mia ricerca ho combattuto l’idea dell’empatia come sentimento morale che garantisce solidarietà, altruismo, condivisione delle sofferenze altrui. L’empatia può essere interrotta e manipolata. Basta leggere le cronache sulla guerra ucraina per notare che l’empatia continua ad essere sinonimo di compassione che, peraltro è provato, ha un picco e poi inesorabilmente una caduta».
Se l’empatia è un concetto così fragile perché te ne occupi?
«Perché è un percorso etico interessante. Basta non pensare che sia la soluzione delle crisi che minacciano il pianeta. Non possono essere prese scorciatoie o fornite spiegazioni semplicistiche. L’empatia sta al centro delle contraddizioni del mondo contemporaneo: è stata messa duramente alla prova dalla pandemia, che ha modificato la grammatica delle relazioni interpersonali. Oggi stiamo a vedere cosa succederà con la guerra che va avanti».
Alla fine che definizione daresti dell’empatia?
«Liberata dai suoi aspetti emotivi, la vedrei come l’esperienza di relazione. L’apertura all’altro».
Ma l’empatia non può fare a meno della sofferenzadegli altri.
«Ma neppure dell’allegria, della dolcezza, della gentilezza. Empatia non è sinonimo di buonismo, non va confusa con il sentimento morale che garantisce solidarietà, altruismo, condivisione del dolore altrui.
Essa pone la centralità dell’altro, è un’apertura di credito verso l’altro, da cui può nascere tutto, anche il conflitto».
È una forma di incontro, per tornare all’inizio di questa conversazione.
«Certo, gli incontri sono il nostro romanzo di formazione, la nostra storia che non può fare a meno delle storie degli altri, è la storia di ciò che si è diventati, ciò che si è. Anche grazie al duro lavoro».
A proposito di Callas e Bachmann parli dell’arte del duro lavoro.
«La disciplina che ho imparato negli anni universitari pisani non mi ha impedito di avere una vita abbastanza turbolenta: due figli di padri diversi, l’andare in montagna e in bicicletta. Non mi piace essere considerata solo una professoressa. L’imperativo che oggi mi sta un po’ scomodo – devo scrivere, devo studiare, devo preparare una lezione – ha però dato una quadratura, potrei dire un senso a quello che faccio».