Robinson, 7 maggio 2022
Intervista a Ewan McGregor
Dopo i tre prequel della saga di Lucas impersonerà di nuovo Obi- Wan Kenobi nella serie tv in arrivo L’attore scozzese ci racconta in anteprima la storia di un guerriero spirituale sconfitto e il suo segreto
«A iutami Obi-Wan Kenobi, sei la mia unica speranza». L’ologramma della Principessa Leia evocava, fin dalle prime scene diStar Wars (1977) la figura a metà tra un mago tolkieniano e un monaco buddista, strumento della Forza capace di salvare i ribelli e l’universo, Maestro pronto al sacrificio e poi spirito guida. George Lucas aveva pensato subito a Sir Alec Guinness, che odiava la fantascienza ma accettò per soldi. Fu piuttosto confuso sul set, contrariato dall’indecisione del regista sul farlo morire o no e dallo screanzato Harrison Ford che lo chiamava Madre Superiora. Ma quel personaggio è stato matrice della nobiltà, dell’altruismo, della compassione degli jedi, sentimento che ha attraversato i cavalieri lungo la saga e che, nella serie Obi-Wan Kenobi, su Disney+, è il trucco con cui gli inquisitori che li braccano riescono a smascherarli: «La loro compassione lascia una scia. Il codice jedi è una seconda pelle, non possono sfilarsela». Ne abbiamo parlato in anteprima con Ewan McGregor, l’Obi-Wan degli Episodi I-III, che ora torna a raccontarci come il guerriero sconfitto si siatrasformato nell’ascetico Obi-Guinnes.
La compassione come prima caratteristica di un guerriero è un concetto rivoluzionario, anche oggi.
«Ha ragione. La caratteristica degli jedi è la compassione, questo è l’insegnamento. Penso che George (Lucas, ndr) abbia preso in prestito o sia stato influenzato da molti corpi spirituali diversi, perché c’è qualcosa di monacale in Alec Guinness, nel ruolo di Obi-Wan nel film originale, di profondamente spirituale.
Quando parla della forza usa concetti che sembrano buddisti.
È compassionevole, riesce a restare rassicurante anche quando, nel locale per proteggere Luke Skywalker, taglia un braccio a un tizio. Ed è proprio questo fare leva sul senso di protezione che gli inquisitori usano come un’arma per cacciarli e distruggerli uno ad uno».
Lucas era un autore della New Hollywood. Rifiutò di girare “Apocalypse Now” per “Star Wars”, ma nella sua favola c’erano riferimenti alla guerra in Vietnam. Gli Episodi I-III raccontano la lotta tra democrazia e impero, il disgregarsi della democrazia. In questo senso è molto contemporaneo.
«Mi ha sempre stupito quanti strati ci siano nell’universo diStar Wars.Concetti che da bambino passano sopra la tua testa. Avevo sette anni quando ho visto il primo film, per me era solo, in termini basilari, l’appassionante lotta tra bene e male. Poi lo riguardi da adulto, capisci di più, vedi altri riferimenti, esplorazioni. Non lo avevo associato alla guerra in Vietnam, molto interessante.
Piuttosto la ribellione mi faceva pensare alla Seconda guerra mondiale, alla resistenza in Francia».
Da ragazzino cosa pensava di Obi-Wan Kenobi?
«Avevo i pupazzetti di pochi personaggi diStar Wars, Alec Guinness, la Principessa Leia e Chewbecca. Erano loro i preferiti, a quello di Guinness si poteva togliere il mantello di plastica. Per noi erano come personaggi delle fiabe classiche, il vecchio mago saggio, la principessa, Luke era Jack del fagiolo magico. Le racconto cosa mi è successo in questa serie. Alla mia prima scenacon il vero Darth Vader, facciamo le prove, lui non indossa la maschera, per me è un attore. Facciamo una pausa per rinfrescare il trucco, riprendiamo la scena, in cui lui arriva e mi aggredisce alle spalle. Io cammino, mi volto di scatto e mi ritrovo il fottuto Darth Vader che incede verso di me. Mi creda, recito da trent’anni e non ho mai sperimentato quella paura, ho avuto un sussulto di terrore improvviso vedendo la faccia nera di Vader, reale. E mi sono reso conto di quanto profondamente siano radicati questi personaggi nelle nostre anime, dall’infanzia. E poi c’è quella foto di Carrie Fisher, nell’ufficio di produzione, che mi fa sussultare ogni volta, perché mi ricorda da ragazzino quanto ero innamorato di lei, che ho avuto la fortuna di conoscere un po’».
Cosa ricorda di lei?
«Ho amato così tanto Carrie. Divertente e intelligente. È buffo, ma quella foto diUna nuova speranza, con lei giovanissima, che vedo nell’ufficio mi fa tornare il ragazzino che la guardava, bocca aperta e cuore in gola».
Nelle prime immagini Obi-Wan dice «La lotta è finita, abbiamo perso». La serie racconta come il Kenobi che abbiamo lasciato sconfitto in Episodio III compie un viaggio verso la pace Zen della versione di Guinness?
«Le posso solo dire che la vicenda si svolge tra l’Episodio III e il IV, speriamo di aver costruito una storia intelligente e soddisfacente. Non le confermo il viaggio di cui parla, che mi pare suggestivo, però».
Ai tempi di Episodio I non era sicuro di voler fare Obi-Wan.
«È vero. Stavo girando film con Danny Boyle, avevo fatto Piccoli omicidi tra amici e
Trainspotting, lavoravo con Peter Greenaway. Mi pareva che Star Warsnon fosse affatto la mia corsia. Immagino di essere stato un po’ arrogante. Volevo essere british, indie, come gli Oasis. EStar Warssembrava così enorme. Non sapevo che operazione fosse, al tempo non eravamo così abituati ai sequel e prequel. Ma sapevo che a farlo c’era George (Lucas, ndr), mi sono fidato. Non mi hanno offerto la parte, ero in lizza con altri attori. Provino dopo provino, continuavo a chiedere a colleghi, come Danny Boyle. La maggior parte di loro mi diceva “hai fatto molti film diversi, non sarà un problema”. Ma mio zio, Denis Lawson, che nella trilogia originale era Wedge Antilles, aveva dubbi, era preoccupato che una produzione così mi avrebbe monopolizzato la carriera. Io però più mi avvicinavo e più volevo farlo. Ho iniziato ad attingere all’amore che avevo per quei film da bambino. Ho capito che sì, volevo essere Kenobi».
Rimaneste in lizza in tre.
«Sì, ho fatto un provino, forse in costume. Ero tesissimo. Agli studi Leavesden mi consegnarono la sceneggiatura per la prima volta, la lessi chiuso a chiave nell’ufficio del produttore Rick McCollum. Poi George mi ha portato al dipartimento degli oggetti di scena, ho visto quell’enorme sottomarino, in cui sono finito con Jar Jar Binks e Liam Neeson. Chiedo ingenuo ed eccitato a George: andremo davvero sott’acqua? Lui ride ironico, “non c’è niente di vero, lo sai”. Il set era fatto di giganteschi schermi blu e verdi. È stato un duro lavoro mantenersi reali, creare qualcosa di interessante».
Com’è stato il nuovo set? So che è iniziato con scene impegnative subito dopo il vaccino Moderna.
«La mia prima dose ad aprile dello scorso anno, mi ha messo ko, non ho avuto una reazione avversa, ma ho affrontato il set impegnativo con difficoltà. Poi mi sonotirato su».
È più emozionatooggi, con la seriededicata?
«Le confesso che non c’è paragone. Ero così giovane quando abbiamo fatto il primo, e così irremovibile sul fatto che non mi avrebbe definito. Ho fatto del mio meglio, ho sempre cercato un legame tra me e Alec Guinness, sentirmi lui da giovane. Ma finito il primo set ho fatto altri film, che mi piacevano altrettanto. Invece di questa serie sono anche produttore, coinvolto nella preparazione, nella storia, nel personaggio.
Non ho scritto nulla, ma leggevo tutte le bozze e comunicavo i miei pensieri. E poi c’è una nuova tecnologia, abbiamo lavorato su questo set di scenografia, che è come un enorme schermo intorno al palco, in cui puoi creare qualsiasi cosa. Può essere un deserto, lo spazio, una città, una stanza. E mentre muovi la telecamera, cambia la prospettiva dello sfondo, quindi è senza soluzione di continuità. È stato usato inThe Mandalorian. Ti aiuta a non recitare solo con uno schermo blu, tutto diventa naturale, specie al fianco degli ottimi attori, tornati nei vecchi ruoli. E mi è piaciuto essere di nuovo Obi-Wan, interpretarlo in età avanzata. Quando, all’inizio, è spezzato, ha perso la fede e sta cercando di vivere una vita normale, dimenticare di essere uno jedi. È stato bellissimo ripartire da lì».