la Repubblica, 7 maggio 2022
Petrolio, il grande baratto con l’Ungheria
Il “grande baratto”. Pur di arrivare ad un accordo sull’embargo al petrolio russo entro lunedì mattina, la Commissione europea è ormai pronta a cedere tutto. O quasi. E in gioco non ci sono solo i rifornimenti di greggio, ma anche un bel po’ di soldi. Quelli che i Paesi che si dichiarano più in difficoltà, come l’Ungheria di Orbán, chiamano “compensazioni”. Di fatto si sta arrivando ad uno “scambio” mettendo sul tavolo una posta da un paio di miliardi. Che per l’esecutivo comunitario è il modo per uscire dall’impasse. E per Budapest quello di ottenere, nella sostanza, un sostitutivo di una parte dei fondi del NextGenerationEu bloccati a causa del mancato rispetto dello Stato di diritto da parte dell’Ungheria.
«Ci serviranno almeno cinque anni, e anche fondi, per riorganizzare e ricostruire gli stabilimenti. Quindi abbiamo mandato indietro la proposta alla Commissione per una revisione – ha avvertito il premier ungherese –. Non possiamo accettarla, per l’Ungheria è l’equivalente di una bomba atomica. C’è una linea rossa: il settore dell’energia». In realtà Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca hanno già ottenuto una ampia dilatazione della fase di transizione prima di bloccare il greggio di Mosca. Agli ungheresi e agli slovacchi il termine è slittato al 31 dicembre 2024: due anni e mezzo. Ma chiedono ancora un altro anno. Tra oggi e domani la Commissione proverà a concedere altri sei mesi. Per i cechi il termine è il 30 giugno 2024. Ma in ballo, appunto, c’è dell’altro.
Tutti questi Stati membri, più la Croazia e la Bulgaria, aggiungono un altro fattore: le nostre raffinerie sono tarate sul petrolio russo. La Croazia ad esempio cita l’impianto di Fiume. E non avendo, alcuni di loro, sbocchi al mare, non ci sono al momento oleodotti che possano trasportare altro greggio. Quindi servono investimenti per riconvertire le raffinerie e costruire almeno una nuova “pipeline”. Una delle ipotesi, ad esempio, è di realizzare un raccordo con il Tal, l’oleodotto transalpino che porta l’”oro nero” da Trieste in Germania. In sintesi: l’ok alle sanzioni passa dalle “compensazioni” per queste infrastrutture.
Nei giorni scorsi il governo di Orbán aveva anche chiesto di sbloccare i fondi del Recovery, poco più di 7 miliardi. Ma la Commissione non intende rinunciare ad una questione di principio: il rispetto dello Stato di diritto. Di fatto una parte arriverà comunque a Budapest proprio con questi finanziamenti, che non sarebbero prestiti ma “gratuità”. A Bruxelles si cerca di capire quanti soldi stanziare e dove reperirli nel bilancio. Ma difficilmente si scenderà sotto i due miliardi di euro.
Anche nei confronti delle richieste di Grecia, Malta e Cipro relative al divieto per le navi europee di trasportare il petrolio di Mosca, è aperta una trattativa. Queste tre capitali denunciano un danno consistente nella loro economia marittima. Anche per loro questo divieto potrebbe slittare: scatterebbe contestualmente alla fase operativa dell’embargo, cioè a gennaio prossimo. E verrebbero previsti pure “rimborsi”. Il punto è che lo stallo s ta diventando pericolosissimo per i Palazzi dell’Unione. Per la prima volta dall’inizio della guerra l’Europa rischia di mostrarsi spaccata. È un dossier che va chiuso rapidamente. Anche a costo di concedere tutto, o quasi. Del resto, che sia più un problema politico che pratico è ormai chiaro. Avendo spostato così tanto in là l’efficacia del bando, non esiste una questione tecnica temporale. Il problema è la data del 9 maggio: la festa dell’Europa e le celebrazioni della vittoria di Mosca. Putin quel giorno potrebbe pronunciare qualche proclama e rispondere con una divisione evidente sulle sanzioni sarebbe per l’Ue un vero e proprio smacco.
Oggi, allora, tornerà a riunirsi il Coreper (il comitato dei Rappresentanti permanenti) per esaminare le ultime mediazioni. In vista di questo incontro la Commissione è pronta a fare tutte le concessioni possibili. Tenendo presente che la quantità di greggio acquistata da Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca non è in termini assoluti decisiva. Ursula von der Leyen ieri ha avvertito di non cadere nel tranello di Putin: «Il Cremlino non sta solo devastando l’Ucraina, sta anche cercando di giocare al vecchio gioco del divide et impera. L’indipendenza dall’arbitrarietà della Russia richiede anche da noi un prezzo. Ma il prezzo per Mosca è molto più alto».
Intanto, secondo ilWall Street Journal,anche alcuni colossi tecnologici cinesi, tra cui il produttore di Pc Lenovo, starebbero diminuendo le esportazioni verso la Russia, ritirandosi “silenziosamente” dal mercato per timore di incappare in sanzioni secondarie.