Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  maggio 07 Sabato calendario

Gli occhi di Mosca sul viaggio di Draghi

A tre giorni dall’arrivo di Mario Draghi a Washington, due interrogativi meritano una riflessione. Il primo: quale Italia il presidente del Consiglio va a rappresentare?
Il secondo: cosa si attende l’amministrazione Biden dal governo italiano? Per rispondere alla prima domanda, non sottovalutiamo l’atmosfera in cui si svolgeranno i colloqui. Senza proporre paragoni impropri con il passato, vale la pena ricordare che un altro premier si trovò a volare a Washington mentre a Roma la sua maggioranza era divisa sulla politica estera e di difesa. Quel presidente si chiamava De Gasperi, come è noto a tutti, e si era nel gennaio del 1947: l’Alleanza Atlantica era di là da venire, ma se ne stavano gettando i presupposti. De Gasperi doveva dimostrare la credibilità e la solidità della nuova Italia repubblicana, al di là di tutte le riserve e i dubbi diffusi in un certo “establishment” americano.
Sappiamo del successo di quella missione, destinata ad aprire la via a una diversa coalizione di governo, dalla quale i comunisti e i socialisti – allora strettamente alleati – furono esclusi. Oggi il quadro generale è ovviamente diverso. Draghi non guida un Paese bisognoso di tutto, bensì un protagonista nella Ue. Inoltre l’ex presidente della Bce è ben conosciuto alla Casa Bianca, un amico leale da consultare nei momenti chiave: come è avvenuto di recente quando si è trattato di sanzionare le riserve estere delle banche russe. Tuttavia l’Italia di Draghi è tutt’altro che compatta sulla guerra in Ucraina e i suoi sviluppi. Per la verità, il Paese sembra assai permeabile alle manifestazioni della propaganda russa, il che non è privo di effetti nel sentimento dell’opinione pubblica. Lo sanno a Mosca e lo sanno a Washington.
La Lega di Salvini e i 5S di Conte (la parte del movimento che si riconosce nell’attivismo dell’avvocato pugliese) sono schierati contro Draghi e contro la linea “atlantista” che il premier difende in sintonia con il Quirinale. È solo una ricerca di consenso nella fascia di opinione più impaurita dalla guerra? Senza dubbio c’è anche questo.
Ma è difficile ridurre a una questione di “marketing” elettorale un dinamismo che procede in parallelo con le tesi del Cremlino, volte a dividere gli europei sui nodi dell’energia e soprattutto sulla solidarietà politica e militare con Kiev. A voler essere maliziosi, si potrebbe dire che secondo Mosca esistono due anelli deboli della catena occidentale: uno è l’Ungheria sulle questioni energetiche; l’altro è l’Italia sulle forniture di armi all’Ucraina. Ne deriva che Draghi dovrà spiegare in modo convincente ai suoi interlocutori che certi distinguo e certi risentimenti non vanno presi troppo sul serio. E che al limite il governo è in grado di andare avanti lo stesso, con una base più ristretta ma più coesa, qualora qualcuno dei critici decidesse di uscire dalla maggioranza. Ipotesi remota, ma non trascurabile se la crisi internazionale dovesse inasprirsi e il richiamo della foresta si facesse perentorio per Salvini e magari anche per Conte.
Qui si viene al secondo punto: cosa si attendono gli americani dal loro ospite italiano? Che l’Italia si comporti con coerenza dopo le parole pronunciate da Draghi davanti al Parlamento europeo, nel solco del rigore più volte ribadito da lui stesso e anche dal capo dello Stato.
Con l’Unione ancora dubbiosa sulle sanzioni, tale coerenza si misura, è inevitabile, sull’invio di armamenti pesanti all’esercito ucraino. Armamenti capaci di riequilibrare i rapporti di forza e di permettere a Kiev di difendersi in modo efficace. Le notizie dai campi di battaglia dicono che le truppe di Putin sono in crescente difficoltà, per terra e per mare, e ancora più lo saranno se gli ucraini reggeranno il confronto. Non è un linguaggio di guerra: il punto è che nessuno può sostenere in buonafede che esista uno spazio per il negoziato se i russi non accettano un vero “cessate il fuoco” e non cominciano a porre fine all’invasione. In quel caso la trattativa sarà possibile: lo dimostra l’ucraino Zelensky quando ammette in via di principio la cessione della Crimea a Putin (che da tempo l’ha fatta sua). C’è una terza via, ovviamente: che l’Europa e l’America si dividano. Ma sta avvenendo solo in certe elucubrazioni televisive. Viceversa, le maggiori capitali europee, sia pure con fatica, stanno aiutando la resistenza ucraina come unico mezzo per uscire dallo stallo.
A Washington si aspettano la stessa disponibilità dall’alleato italiano: non a caso si parla di cannoni capaci di bilanciare e anzi sopravanzare la potenza russa. Le accuse a Draghi di essere un “guerrafondaio” solo perché si muove su questo crinale sembrano quindi abbastanza inconsistenti: a meno che non si sia formato un fronte interno disposto a provocare la caduta del governo nel pieno di una crisi internazionale di eccezionale portata, con le sue drammatiche ricadute sul piano economico e sociale. Se così fosse, a Mosca qualcuno sarebbe contento, ma solo lì.