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 2022  maggio 07 Sabato calendario

Intervista a Eshkol Nevo


Omri, il protagonista della prima storia in Le vie dell’Eden, pensa alle tante «operazioni-che-di-fatto-sono-guerre» della sua Israele. Da oltre 70 giorni ascoltiamo Vladimir Putin e i suoi propagandisti spacciare una guerra come-se-di-fatto-fosse-un’operazione. «Sono convinto che Albert Einstein avesse ragione: le azioni malvagie accadono quando le brave persone restano in silenzio. Mentre il governo israeliano è rimasto zitto in maniera imbarazzante sull’invasione dell’Ucraina, qui la gente raccoglie donazioni, aiuta i rifugiati e prega perché l’aggressione russa finisca in una sconfitta. Sento che la sfida per me come scrittore consista nell’usare le parole in modi che ridiano loro l’autenticità».
Eshkol Nevo ritorna in Italia anche perché ha altro da offrire per le Umberto Eco Lectures all’Università di Bologna. La prima è stata dedicata alla Speranza, la prossima (21 maggio) all’Intimità.
Nella lezione ha spiegato che per lei la speranza è legata alla capacità umana di immaginare. Di recente un gruppo di psicologi ha pubblicato una ricerca: raccontiamo a noi stessi frottole sul futuro perché siamo più disposti ad accettare un’evidente bugia nel presente se pensiamo che possa diventare una verità con il tempo. Proprio grazie alla nostra capacità di immaginare.
«Vivo in un Paese, Israele, che è stato immaginato nel libro Altneuland da Theodor Herzl. Non posso non credere nel potere positivo delle costruzioni narrative. L’immaginazione è stata una salvezza da bambino e l’ho usata per affrontare la pandemia. Mentre i miei amici si schiantavano sotto la pressione dei lockdown, io scrivevo Le vie dell’Eden: mi potevo ritirare nel mio mondo passando il tempo in Bolivia o immerso in un frutteto. I personaggi di questo libro sono tutto tranne che socialmente distanziati: litigano, sono teneri, si toccano, fanno l’amore».
In «Neuland», che nel titolo rimanda a Herzl, lei prende spunto dal tradizionale viaggio post-militare dei giovani israeliani. Questi mesi passati all’estero sono considerati un rito di passaggio ma più che un momento liberatorio – via da casa e dagli ordini degli ufficiali – paiono un modo di scoprire il mondo per capire e rafforzare le differenze tra israeliani e resto del mondo. Che cosa significa essere israeliano?
«L’ebraico, la lingua in cui sogno. La lingua che era sacra ed è stata resa moderna: adesso può essere usata per andare a far compere, insultare o fare l’amore. Potrei vivere in Italia per un po’ (e chissà, magari succederà) ma dopo qualche mese percepirei questa pesantezza nella lingua, quella dentro la mia bocca, quando non stai parlando la tua e perdi tutti quei livelli delle parole. In italiano un frutteto è soltanto un frutteto, in ebraico pardès (frutteto) è anche il Giardino di Dio e una metafora nella Cabala e forse pure il luogo dove depositi i tuoi segreti. Quando sono lontano da Israele, mi manca la musica: quello stesso folle mix di Oriente e Occidente, arabi ed ebrei, tradizionale e innovativo, che rende questo Paese così difficile da comprendere, e spesso da viverci, crea una musica unica. In queste settimane siamo immersi in un periodo speciale del calendario, tra i giorni che commemorano l’Olocausto, i caduti delle guerre e l’Indipendenza: la radio trasmette canzoni emotive e nazionalistiche, mentre il muezzin, fuori dalla mia stanza a Jaffa, intona attraverso gli altoparlanti della moschea le preghiere per il Ramadan (conclusosi quest’anno la sera del 1° maggio, ndr). Questo è il luogo complicato dove sono nato e dove molto probabilmente morirò».
Un personaggio, Omri, cede subito all’intimità tra lui e Mor, e le dice: «Sono qui per ascoltare». E un personaggio di un altro libro, «Tre piani», proclama: Freud «un errore l’ha fatto. I tre piani dell’anima non esistono dentro di noi. Esistono nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia». L’autore spagnolo Javier Marías ci avverte che le confessioni sembrano un dono ma in realtà sono regali avvelenati per la responsabilità di conoscere i segreti altrui: «No, io non dovrei raccontare né ascoltare niente».
«Poco tempo fa un amico (uno di quelli della Simmetria dei desideri) mi ha reso depositario di un suo segreto. Non potevo dirlo a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono sentito onorato: era il risultato di un’amicizia che dura da quando abbiamo 16 anni. (È proprio lui che ha avuto l’idea di scrivere i nostri desideri su pezzetti di carta durante la finale dei Mondiali di calcio e aprirli a quella successiva, come racconto nel libro. Tiene i biglietti in una scatola da scarpe, non li abbiamo ancora letti). Quando finalmente lo ha rivelato a tutti, per me è stato un sollievo. Custodire i segreti è un onore, ma anche un fardello. Sono però certo di un punto: fanno bene alla scrittura. Tre piani è stato stimolato da un segreto che fino ad oggi nessuno conosce».
Lo scrittore de «L’ultima intervista» è vulnerabile alle troppe informazioni, eppure contribuisce a diffonderne sempre di più: «Scrivo perché se di tanto in tanto non riesco a scrollarmi di dosso un po’ del fardello dei ricordi».
«Che male c’è a essere vulnerabili? Non credo ci si possa innamorare senza vedere, almeno un barlume, la vulnerabilità degli altri. Le persone sono al massimo della loro bellezza quando sono vulnerabili. Per esempio quando i miei studenti stanno scrivendo in classe, i loro volti sono accesi da una luce speciale».
Stessa domanda che viene posta al personaggio di «L’ultima intervista»: «Suo nonno Levi Eshkol è stato il terzo capo del governo dello Stato d’Israele. Quale lascito le ha trasmesso?».
«Il senso dell’umorismo».
Gerusalemme è di nuovo al centro della violenza. Lei ha scritto di quanto ami la città ma «di non poterla considerare solo mia, solo nostra».
«Stiamo ancora aspettando leader abbastanza coraggiosi, per tutte le parti, per raggiungere l’intesa inevitabile. Ci sono segni di speranza: per la prima volta un partito arabo fa parte della coalizione di governo; in un locale chiamato Fil Bait (A Casa) che sta esattamente sulla linea tra Gerusalemme Est e Ovest arabi ed ebrei ballano insieme; abbiamo tre nuovi insegnanti arabi nella scuola di scrittura creativa. Sono un ottimista? Bisogna esserlo, per vivere qui».
Lei ha detto: «Il punto di vista palestinese è un tabù per la società israeliana. È ironico che il mio “Nostalgia” sia parte dell’esame finale in letteratura ebraica al liceo. Così dal libro gli studenti scoprono come si possa sentire un arabo ma nelle lezioni di storia la visione palestinese scompare».
«Se guardo indietro a questi vent’anni di scrittura, mi rendo conto di aver considerato il mio lavoro significativo quando i lettori mi hanno detto che un mio libro ha permesso loro di guardare alla realtà da una prospettiva nuova, di scoprire che esistono più di una verità, più di una storia. Anche quest’intervista: fatemi le stesse domande tra un mese e molto probabilmente riceverete risposte diverse».