La Lettura, 7 maggio 2022
Filippine al voto
Lunedì 9 maggio le Filippine tornano al voto per l’elezione del presidente, del vicepresidente e del Congresso. Le elettrici e gli elettori sono chiamati a scegliere l’erede di Rodrigo Duterte, il controverso presidente in carica dal 2016 che, in base alle regole costituzionali, non può essere rieletto.
Con 115 milioni di abitanti (di cui l’80% cattolici) sparsi in un arcipelago di complessivi 300 mila chilometri quadrati, il Paese, uno dei più popolosi dell’Asia orientale, è collocato strategicamente tra il Mare Cinese meridionale e il Pacifico occidentale: un’area divenuta negli ultimi anni teatro di crescenti tensioni sino-americane, e perciò cruciale per i destini del mondo in questo secolo.
La presidenza Duterte sarà ricordata per l’avvio di una durissima campagna di «guerra alla droga» che ha provocato almeno 30 mila morti, tra cui molti giovanissimi e ragazzi poveri, assassinati sovente con esecuzioni extragiudiziali. Questa politica di tolleranza zero anche nei confronti di piccoli spacciatori, criticata da Amnesty International e dalle altre principali organizzazioni di difesa dei diritti umani, ha ottenuto un certo sostegno nella popolazione. Nel settembre 2021, la Corte penale internazionale ha autorizzato un’indagine ufficiale contro il presidente per crimini contro l’umanità. Come se non bastasse, Reporter senza Frontiere ha definito Duterte un «predatore dell’informazione» per le limitazioni alla libertà di stampa e le facili accuse alle giornaliste e ai giornalisti, inclusa Maria Ressa, vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 2021. Anche se l’economia filippina tra il 2016 e il 2019 è cresciuta a tassi annui superiori al 6%, il prodotto interno Lordo è crollato del 9,6% nel 2020, complice ovviamente la pandemia da Covid, e il Pil pro capite rimane uno dei più bassi della regione, a 3.300 dollari statunitensi.
Il conseguente aumento della disoccupazione ha contribuito a nutrire la nostalgia per l’era del generale Ferdinand Marcos (in carica dal 1965 al 1986, anno in cui il People’s Power di Corazon Aquino pose fine alla dittatura). Nostalgia che, secondo gli ultimi sondaggi, porterà alla vittoria suo figlio, Ferdinand «Bongbong» Marcos Junior, già aspirante vicepresidente nel 2016 e ora dato al 56%.
In un Paese dove non si è mai realizzata la riforma della terra, le grandi famiglie fondiarie rappresentano le vere dinastie che governano l’arcipelago: la famiglia Marcos è una di queste. Tornati nelle Filippine dopo la morte nel 1989 del patriarca in esilio alle Hawaii, i Marcos hanno mantenuto una base di consenso elettorale, amplificata dall’abile uso della comunicazione e dei social media per cercare di fare dimenticare alla popolazione la cleptocrazia e gli abusi del ventennio autoritario, un’evidente operazione di revisionismo storico che incute timore, aggravata dalla mancanza di critica alla «guerra alla droga» di Duterte e dall’intenzione di proteggere il presidente dall’eventuale incriminazione della Corte penale internazionale.
Con Marcos Jr., sostenuto dal Partito Federale delle Filippine, di centrodestra, si candida alla vicepresidenza, per la quale si vota separatamente rispetto alla presidenza, Sara Duterte, la figlia del presidente, anch’essa affiliata a un partito conservatore di centro, il Lakas.Cmd, di cui fa parte anche l’ex presidente Gloria Macapayal Arroyo. In un primo momento, la Duterte doveva gareggiare per la presidenza, ma pare che sia stata la stessa Arroyo, temendo una dispersione dei voti, a forgiare l’accordo tra le due famiglie, con i Marcos chiamati a portare in dote il consenso del Nord e i Duterte il sostegno del Sud. Non sorprende peraltro che il tandem Marcos Jr.-Duterte Jr. sia sponsorizzato anche dai Ramos e dagli Estrada, due famiglie che hanno espresso ciascuna un presidente, rispettivamente nel 1992 e nel 1998. Paradossale, ma esemplificativo del sistema politico filippino, per la figlia di un presidente venuto dalla provincia con l’intento di spezzare il monopolio del potere detenuto dall’aristocrazia di Manila.
Nessuno tra gli altri nove candidati alla suprema carica dello Stato sembra impensierire Marcos Jr. Nemmeno l’attuale vicepresidente Leni Robredo, avvocatessa e attivista che corre da indipendente, malgrado sia la leader del Partito liberale delle Filippine, pare avere chance di vittoria: i sondaggi la accreditano al 23% dei voti, davanti al campione mondiale di pugilato Manny Pacquiao (7%). Sul fronte più progressista, non ci sono speranze per Francisco «Isko» Moreno, attore e sindaco di Manila, in lizza per Azione Democratica e dato al 4%.
In politica estera le Filippine, come altri Paesi della regione, sono divise tra la necessità di approfittare dell’ascesa economica cinese e la garanzia del sostegno americano per la propria sicurezza. Mentre i militari sostengono l’alleanza storica con Washington, Duterte ha corteggiato Pechino per ottenere investimenti nelle infrastrutture e nello sviluppo industriale. Consapevole dell’opposizione dell’opinione pubblica alle rivendicazioni della Cina sull’intero Mare Cinese meridionale, rigettate da un pronunciamento nel 2016 (mai riconosciuto da Pechino) della Corte internazionale di giustizia, negli ultimi mesi il presidente ha cambiato i toni, meno amichevoli nei confronti del grande vicino. Quasi tutti gli altri candidati rimproverano a Duterte di non avere ottenuto alcun risultato significativo, né sulla questione del Mare Cinese meridionale né in termini di afflusso di capitali cinesi, e perciò hanno promesso di cambiare linea. «Bongbong», invece, propende per la continuità nella China policy delle Filippine.
Queste elezioni nelle Filippine ci interpellano e ci riguardano per due motivi. Innanzitutto, il loro esito concorre a determinare le sorti della democrazia liberale nel XXI secolo. Nella contesa ormai globale tra liberaldemocrazie e sistemi autoritari, tra Pechino e Washington, Manila è in prima linea tra i Paesi che non vogliono essere costretti a scegliere ma che vedono avvicinarsi il momento in cui sarà molto difficile astenersi da una scelta di parte. Divise tra una vibrante società civile e tentazioni neoautoritarie, tra eredità culturali europee, soft e hard power americano e consapevolezza asiatica, le Filippine corrono il rischio di essere trascinate al centro delle tensioni sino-americane, aumentando l’instabilità nel Paese e nella regione.
In secondo luogo, la comunità filippina in Italia registra numeri importanti: sono quasi 158 mila i cittadini filippini regolarmente residenti, pari al 4,4% dei non comunitari (al sesto posto della classifica tra le comunità straniere di questo tipo), di cui l’80% regolarmente occupati. Si tratta di una forza attiva e operosa della nostra società, che rende le Filippine, un Paese apparentemente così lontano, più vicino di quel che si pensi. E conoscere la situazione politica e sociale dei Paesi di provenienza degli immigrati è il modo migliore per comprendere e agevolare i percorsi di integrazione.