Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  maggio 07 Sabato calendario

I 90 anni di Luigi Brioschi. Un’intervista

Nell’ufficio di Luigi Brioschi a Milano le librerie di legno scuro, ordinatissime, fanno il paio con il suo impeccabile abito classico e con una passione per i libri che non disegna l’azzardo. Guanda, la casa editrice a cui è approdato come direttore editoriale nel 1988 con Mario Spagnol e di cui oggi è presidente, compie 90 anni. L’edizione speciale di alcuni dei titoli più significativi del catalogo festeggerà, dice Brioschi, «l’invenzione di un uomo colto e curioso, Ugo Guanda, che la fondò nel ’32 e, in una città di cultura piccola come Parma, fu capace di intercettare il meglio della poesia italiana e internazionale del tempo, di scoprire scrittori e narratori mai ovvi, fissando un modello per quello che oggi chiamiamo editoria di qualità. Guanda si riconosce in una vocazione spiccata al nuovo, il tutto nel contesto di un gruppo, Gems, che ne tutela e le valorizza le scelte editoriali».
Negli anni Ottanta quando la prese in mano con Mario Spagnol bisognava ricominciare...
«C’era un grande passato ma andava ricostruito l’unico patrimonio che esiste per un editore, gli autori, uno scavo titolo per titolo. Abbiamo continuato a campo aperto, andando in cerca di valori ovunque si potessero trovare, senza specializzazioni. Mi è capitato di sentirmi dire che Guanda è l’editore degli irlandesi, dei latinoamericani, degli inglesi della new fiction. Ma la nostra vocazione non è la fedeltà, è il contrario: il nomadismo»
Però succede così: si scopre un autore e intorno si crea un filone, per suggerimenti, affinità, contiguità.
«Sì, è il caso di Sepúlveda, nel ’92. L’editoria, come tutti i mondi, si crea i propri canoni, le regole e di quello vive, però ogni tanto ama ignorarle. Sepúlveda non ci fu portato da uno scout o da un agente. Su “L’Express” lessi una buona recensione di Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, uscito in francese. Non conoscevo l’autore, non sapevo neppure che fosse cileno. Me lo feci mandare da un’amica parigina, lo lessi in francese, mi incantò e lo comprammo. A oggi ha venduto un milione di copie. L’editoria può sorprendere».
Ci vuole anche quello che definisce fiuto...
«Sì, anche sbagliando. Sepúlveda mi parlò subito di uno scrittore, Francisco Coloane, che lui apprezzava moltissimo e che gli era amico. Lucho era così: per lui l’amicizia era tutto, forse anche per il suo passato politico, per i tanti compagni perduti. Era impossibile avere un rapporto con lui senza essere amici, lo diventava anche dell’autista che lo portava in giro. Quando gli affidammo la sua collana, per prima cosa volle pubblicare Coloane, un autore solo di racconti. Ci fu un po’ di sconcerto: come primo titolo di una collana, un libro di racconti, che non si vendono, per di più di un autore cileno sconosciuto e già anziano. Invece funzionò».
La morte improvvisa di Sepúlveda per il Covid è stata un duro colpo…
«Totalmente inaspettato. Lo avevamo visto qui nell’ottobre del 2019, quando facemmo una festa per i suoi settant’anni. Ci eravamo divertiti insieme, anche con Carmen, la moglie».
Le scoperte di Guanda sono diventate spesso bestseller, e poi longseller.
«Beh, certo non tutte. Però molte sì: Arundhati Roy, il cui debutto clamoroso con Il Dio delle piccole cose ha contribuito a innovare la narrativa indiana. Jhumpa Lahiri, che poi ha compiuto la scelta di adottare l’italiano come lingua di scrittura. André Aciman, di cui abbiamo pubblicato Chiamami col tuo nome nel 2008 e poi gli altri libri, come investimento sulla qualità. Abbiamo fatto nostro Peter Handke proprio quando l’interesse per l’autore sembrava affievolirsi, e il riconoscimento alla fine è arrivato, con un Nobel contestato per ragioni politiche, non letterarie».
Jonathan Safran Foer fu una scoperta clamorosa...
«Lo comprammo prima che uscisse in inglese. Leggemmo il manoscritto molto rapidamente: era così forte la carica innovativa, l’originalità, il senso della sfida, che sembrava uno spettacolare salto nel vuoto. Per questo fu fatta l’offerta molto presto. Naturalmente poi uscì prima dall’editore americano perché l’editing dovevano farlo loro. Foer viene considerato un autore letterario. Ma questa cosa della narrativa letteraria non mi ha mai convinto. C’è qualcosa di elitario in questa definizione e poi per me qualità è sinonimo di innovativo. Classificare come letterario Foer mi pare restrittivo. Mi viene sempre in mente la frase di Elsa Morante: a uno scrittore tutto interessa tranne la letteratura».
Anche Irvine Welsh è stata una rivoluzione.
«Un altro caso in cui si vede che i canali sono utilissimi ma alla fine la lettura prevale. Il libro saliva nelle classifiche inglesi e io non me ne ero accorto. Andando a Londra per la Bookfair vidi che davano già un pièce tratta dal romanzo, volevo andarci, ma era sold out. Quando mi buttai nel groviglio gergale di questo libro tempestoso e originale, mi feci un idea del perché con l’attenzione che c’era in Italia allora per l’editoria anglosassone, nessuno se ne fosse accorto. Lo si riteneva intraducibile. Anch’io faticavo a leggerlo, però ti accorgevi della forza che rivoluzionava la lingua inglese».
Un’altra bandiera: Nick Hornby.
«Quando pubblicammo Alta fedeltà, in Gran Bretagna era già uscito Febbre a 90’ che però in Italia non era stato tradotto. Forse era stato preso per un libro sul calcio inglese, difficilmente esportabile. Invece è una deliziosa storia di formazione, naturalmente attraverso il football».
Come si fa ad arrivare prima degli altri?
«Bisogna leggere presto e decidere subito. Un po’ di azzardo dobbiamo averlo anche noi, non solo gli autori».
Uno dei primi che ha pubblicato è stato «Le età di Lulù», di Almudena Grandes.
«Non sono mai stato un patito della letteratura erotica, certo era un libro di ottima fattura, rivelava un talento, una forza inventiva e, malgrado il limite del genere, c’era già il segno di una scrittrice meravigliosa che ta l’altro non avrebbe più pubblicato libri erotici. È diventato il libro simbolo della Spagna postfranchista».
Quant’è stato importante Mario Spagnol?
«È stato un innovatore, soprattutto nel periodo rizzoliano, messo forse un po’ in ombra dai successi dell’ultima stagione. Ha contribuito a svecchiare l’editoria italiana, ha inventato il publishing, prestando tra l’altro al vestito del libro il talento di John Alcorn. È stato visto da alcuni soprattutto come un creatore di bestseller ma negli anni in cui pubblicava romanzi di successo come Radici, portava alla Rizzoli Flaiano, Manganelli, Testori, Landolfi, Soavi, Cassola, Cancogni, Tomizza...».
Che cos’è il «publishing»?
«Difficile da definire, può essere anche un titolo ben scelto. Per esempio quello del romanzo di Catherine Dunne, La metà di niente. L’originale inglese era In the Beginning, citazione biblica, ma noi cominciamo a istigare la traduttrice, Eva Kampmann, che lo trovò: la protagonista dice di non essere più la metà di una coppia ma, appunto, la metà di niente».
Il rapporto con gli autori com’è?
«Lo ritengo naturale: autore ed editore sono due soggetti che in modo totalmente diverso, ma con fini inevitabilmente comuni, collaborano. Banville è stato uno dei primi che abbiamo preso e con lui c’è un rapporto molto solido, anche di interessi comuni. Così con Aramburu. Abbiamo acquisito Patria senza dover battere troppa concorrenza, era uscito da un paio di settimane e mostrava già segni di crescita, anche se era un azzardo. Si diceva che fosse un romanzo sul terrorismo invece è un romanzo familiare che diventa un romanzo totale: il terrorismo è una parte importantissima, il motore. Anche lì c’è azzardo, come nei romanzi di Manuel Vilas che non hanno un’architettura precisa perché affidano tutto a una sola carta, quella stilistica, la più ambiziosa. C’è una frase di Samuel Fisher di più di un secolo fa: la missione più bella di un editore è quella di imporre al pubblico valori nuovi che esso non accetta. Se guardo al passato mi rendo conto che l’editoria è cambiata moltissimo ma non negli aspetti essenziali. La curiosità ci deve essere sempre».
C’è un libro che si è pentito di aver lasciato andare?
«Le ceneri di Angela di Frank McCourt che pubblicò Adelphi. Lo avevo amato, però mi sembrava un po’ un emulo di Roddy Doyle. Certamente non lo era e io ho sbagliato clamorosamente. Da allora mi sono detto: se ti piace prendilo e basta».
Un altro simbolo di Guanda è Javier Cercas.
«Sì, assolutamente, anche lì la novela sin fictiòn è la dimostrazione che il romanzo non è solo invenzione, ma tante altre cose: c’è l’introspezione, c’è la lingua».
Qual è il prossimo azzardo?
«Un romanzo di circa 900 pagine che si intitola I canti d’amore di Wood Place ed è una saga afroamericana. Io narrante è una ragazza di colore che racconta anche cinque secoli di storia afroamericana. L’autrice, Honorée Fanonne Jeffers, viene dall’ambiente universitario ed è anche poetessa. Un libro popolare ma anche di qualità. Temerario, direi».