La Repbblica, Corriere della Sera, 7 maggio 2022
I 70 anni di Sgarbi. Interviste
Concetto Vecchio per la Repubblica
L’appuntamento con Vittorio Sgarbi, che domani compie 70 anni, è a mezzogiorno a Firenze. Ma alle quattro del mattino ha inviato questo messaggio Whatsapp: “Non ce la faccio ad arrivare. Sentiamoci al telefono”.
Che cosa le è successo?
«Certe notti combatto con un residuo del cancro alla prostata, che ho sconfitto. Spesso devo correre alla toilette e quindi non ho chiuso occhio».
Quando ha scoperto la malattia?
«Durante il lockdown facevo fondo ad Asiago. Mi si sono gonfiate le caviglie. Il medico, l’ex parlamentare Mario Pepe, quando ha visto l’esito delle analisi mi ha abbracciato: “Hai un tumore, ma non vedo metastasi”».
Che cure ha fatto?
«Quaranta radiazioni, al Sant’Elena a Roma, seguito dal professor Giuseppe Sanguineti. Ho fatto portare un quadro di Adelchi-Riccardo Mantovani e l’ho appeso al soffitto: lo guardavo mentre mi bombardavano».
Cosa pensava in quei momenti?
«Ho smesso di ritenermi invincibile. Già nel 2015 avevo rischiato di morire».
Come andò?
«Ero a Brescia, e di notte aprirono le chiese solo per me. Poi, sfinito, dissi all’autista di portarmi a Firenze. Lungo il tragitto cominciai a sentire un gran peso sul cuore, dopo Mantova gli chiesi di uscire dall’autostrada e di raggiungere l’ospedale più vicino, a Modena. Svegliarono il primario e mi operarono. “Ancora mezz’ora e lei sarebbe morto”, mi disse il dottor Cappello. “Sarei morto a Roncobilaccio, non mi sembrava il caso”, risposi».
Ma lei non è cambiato, a giudicare dalla rissa con Mughini.
«Non ho fatto niente stavolta, è stato lui a colpirmi».
Non l’ha provocato?
«Ho difeso Al Bano che stava raccontando del suo rapporto con Putin».
Cosa deve dimostrare ancora a se stesso con queste gazzarre?
«Niente, ma la mia tv è fatta di imprevisti e incidenti».
Maurizio Costanzo cosa le ha detto?
«Ci vuole in trasmissione per fare pace. È un po’ una sceneggiata, vediamo, dai».
Com’era da ragazzo?
«Mi chiamavano Ucialina , perché portavo gli occhiali. Mi piaceva stare con quelli più grandi. Quando venne Montale a Ferrara si divertì perché fu interrogato da Pazzi,Felloni e Sgarbi. Roberto Pazzi poi divenne poeta e scrittore».
Che ambizioni aveva?
«La mia unica regola morale è rispettare le scadenze. Presi la patente a diciotto anni, la laurea a 22, a 40 ero parlamentare».
È vero che mandò a quel paese il relatore della tesi di laurea?
«Era un importante storico dell’arte, Carlo Volpe. Mi cacciò dicendomi che avevo un brutto carattere, salvo poi richiamarmi per darmi 110 e lode».
Primo lavoro?
«A 24 anni ero ispettore delle Belle Arti a Venezia, conobbi Pasolini, Borges, Arbasino. Giulio Einaudi mi chiedeva di accompagnarlo per le calli, era attratto dal mio dongiovannismo, le donne della bella società veneziana volevano conoscermi, ogni tanto ne incontro qualcuna, signore che oggi hanno 80 o 90 anni: “Vittorio, ti ricordi di me?”. «Eh!», faccio io. Lì realizzo quanto sono diventato vecchio».
È cresciuto in una famiglia colta.
«Papà giocava a tennis con Bassani».
Suo padre confessò ad Antonio Gnoli di essere in ansia per i suoi eccessi.
«Chi fosse veramente mio padre l’ho scoperto leggendo i suoi libri. Il primo l’ha pubblicato a 93 anni. Era uno scrittore e non lo sapevo».
Che genitore è stato?
«Aveva in casa l’intera collezione della Biblioteca Bur, leggeva Anatole France, m’introdusse a Céline; era un borghese abitudinario, il farmacista di Ro Ferrarese, un uomo che privilegiava l’ombra, con un suo senso intimo della tradizione».
Pupi Avati ha fatto un film dal libro “Lei mi parla ancora”.
«Sì, il racconto di sessant’anni di matrimonio con mia madre».
Ha avuto una vita sentimentale che è l’opposto rispetto a quella dei suoi genitori.
«Forse è stata una reazione».
In che senso?
«Assistendo alle tensioni tra mia madre e mio padre ho capito che la vita di coppia non faceva per me. Vede, l’eros è anche una forma di conoscenza dell’altro, ed è quel che si addice alla mia natura inquieta».
Perché litigavano i suoi?
«Conflitti caratteriali. Mamma voleva muoversi, papà preferiva pescare. Mia madre era una forza della natura, ha sempre parteggiato per me, quando tornavo a casa dicendo che mi ero picchiato con un compagno mi difendeva: “La prossima volta dagli due pugni in più”, diceva».
Quindi ha cercato un modello di vita non borghese?
«Sì, vedevo mio padre vittima di mia madre, l’uomo in un certo senso era lei. E come se per tutta la vita avessi sentito il bisogno di riscattare questa condizione di minorità».
Una rivalsa?
«Tutte le donne che ho avuto, sono più di 1.500 credo, le ho conquistate e dedicate a mio padre e a mio zio, Bruno Cavallini, grande letterato, lasciato dalla moglie perché gli aveva trovato le lettere d’amore scritte dall’amante».
Un giudice chiese di sottoporla a perizia psichiatrica
«Non sono matto, sono libero. Ho fatto quello che volevo».
***
Candida Morvillo per il Corriere
Vittorio Sgarbi, con che spirito arriva, domani, ai 70 anni?
«Con una grande malinconia, con l’idea di aver vissuto più del tempo che vivrò e che quello che ho vissuto è stato così intenso da impedirmi qualsiasi lamento e condizione di infelicità».
Lo Sgarbi delle risse tv, l’ultima con Giampiero Mughini, è così intemperante anche nella quotidianità?
«No, sono mite. Posso fare una scenata se trovo un errore su un catalogo, ma si spiega con la formula che mia madre definiva dei cinque minuti: la giornata è fatta di 24 ore; per 23 ore e 55 sei normale, ma sugli altri cinque minuti si costruisce la tua leggenda».
Sua madre Rina Cavallini, raccontò che, a scuola, lei veniva vessato e picchiato dai fratelli Manzoli. Quando il bimbo bullizzato diventa un bullo intellettuale?
«Quella, in effetti, fu una scuola di vita che ha determinato la mia reattività. Dopo, al collegio dai Salesiani, trovai mille obblighi, l’orario, le messe tutti i giorni. In biblioteca, c’era l’elenco dei libri proibiti, divisi per categorie: C3 erano quelli “cautela, per adulti”. Erano consentiti Cuore e forse Pinocchio. Un prete trovò nel mio banco Senilità di Italo Svevo. Furono chiamati i miei genitori. Che, invece di difendermi, si scandalizzarono. Vidi una cosa logica trasformarsi in peccato. Il preside disse: dovrebbe leggere I dolori del giovane Werther. E io: C3, è vietato! Fu un colpo sgarbiano formidabile. I miei videro lì lo Sgarbi che iniziava a nascere. Sono state le proibizioni a portarmi alla trasgressione».
E che c’entra trasgredire con la violenza verbale?
«Questa è conseguenza dell’ispirazione di zio Bruno, fratello di mamma, grandissimo letterato. La sera, si parlava di politica e zio primeggiava sempre, aveva un tono polemico, argomenti che mi sembravano giusti. Fu una specie di transfert».
La folgorazione che si può prevalere con la cultura, anziché con la forza fisica?
«Esattamente».
Che cosa scatena lo Sgarbi fumantino che conosciamo?
«Un temperamento di fondo fatto di socievolezza: io sono accogliente, sono per gli imbucati, sono per i profughi, sono come Pier Paolo Pasolini per cercare di convertire chi mi odia, ma se qualcuno supera il confine, divento quell’altro Sgarbi. È un incidente imprevisto che lo scatena».
«Incidente imprevisto»? Non esibizionismo?
«Per me, passione e ragione significano: io ho passione, io ho ragione. Nel 1989, vado al Costanzo Show e, la prima volta, dico str...a a una preside, la seconda volta faccio piangere la fotografa Letizia Battaglia, la terza dico che voglio vedere morto Federico Zeri. Fino ad allora, guardavo la tv con distacco, lì ho capito che ha una velocità straordinaria nel trasmettere le idee. Oggi, sui social, ci sono mie risse vecchissime e perciò sono l’unico della mia età a cui i giovani chiedono selfie. Il mio pensiero sta vivendo per un tempo più lungo che per i miei coetanei».
La conoscono per le risse e questo la rende fiero?
Oggi provo tanta malinconia Io intemperante? No, sono mite per 23 ore e 55 minuti...
Mi commuovo per mia figlia
«Più che fiero, mi rende esistente. Un intellettuale per strada non esiste, il suo pensiero è chiuso nei suoi libri».
Quando si è dispiaciuto di aver esagerato?
«Sempre, subito dopo. Come ogni buon coccodrillo. Dopo, non per finta, dico: potevo risparmiarmelo. Ma la verità è che non potevo: era un flusso inarrestabile».
Ha tre figli da tre donne, si è definito un padre preterintezionale. Lo spirito della paternità l’ha mai sfiorata?
«Poco. L’ultima, Alba, mi commuove per la sua delicatezza e perché mi ha salvato dall’annegamento in mare. Non ero in reale pericolo, ma si è buttata per salvarmi».
Per che cosa ha pianto?
«Ho pianto ai funerali di zio Bruno. Ha avuto un infarto, come è successo a me, ma lui era solo. Il giorno in cui se n’è andato, in casa mia è entrato un San Domenico di Niccolò dell’Arca, uno scultore rarissimo, il cui spirito ha preso il posto di mio zio in casa. E ho pianto alla mostra di Caravaggio a Rovereto, aperta fra mille polemiche, poi chiusa per Covid, vedendo arrivare comunque tante persone».
La sua collezione d’arte è celebre, di quale acquisto è più orgoglioso?
«Le opere sono il modo in cui traduco il denaro in spirito. So trovare dipinti antichi a cifre contenute. Comprai un Guercino in Texas con 280 mila dollari che Corrado Passera mi fece prestare dalla banca. È sempre così: se hai i soldi, non trovi i quadri e, se trovi i quadri non hai i soldi».
Un’opera che ha rimpianto di non aver comprato?
«Tante. Una Pietà di Bellini murata in una cappella privata è uno dei pensieri stabili di ciò che avrei voluto avere».
Un libro che ha scritto che è felice di lasciare ai posteri?
«Tutti quelli su autori su cui non si era mai pubblicato, come Niccolò dell’Arca, Antonio da Crevalcore. E tutta la storia dell’arte pubblicata da mia sorella Elisabetta».
Sua sorella sostiene che lei sia molto sensibile.
«Abbiamo perso tutti i parenti. Sono diventato il suo figlio unico. Ma un aneddoto sulla sensibilità ce l’ho… Settimana scorsa, scopro che Lino Capolicchio stava morendo; sapevo che aveva dato un libro a Elisabetta. Le ho detto di pubblicarlo subito, poi ho chiamato lui. Era in ospedale, l’ho senti
to passare dalla morte all’entusiasmo. L’ho fatto per farlo andare via felice».
***
Candida Morvillo per il Corriere
Vittorio Sgarbi, con che spirito arriva, domani, ai 70 anni?
«Con una grande malinconia, con l’idea di aver vissuto più del tempo che vivrò e che quello che ho vissuto è stato così intenso da impedirmi qualsiasi lamento e condizione di infelicità».
Lo Sgarbi delle risse tv, l’ultima con Giampiero Mughini, è così intemperante anche nella quotidianità?
«No, sono mite. Posso fare una scenata se trovo un errore su un catalogo, ma si spiega con la formula che mia madre definiva dei cinque minuti: la giornata è fatta di 24 ore; per 23 ore e 55 sei normale, ma sugli altri cinque minuti si costruisce la tua leggenda».
Sua madre Rina Cavallini, raccontò che, a scuola, lei veniva vessato e picchiato dai fratelli Manzoli. Quando il bimbo bullizzato diventa un bullo intellettuale?
«Quella, in effetti, fu una scuola di vita che ha determinato la mia reattività. Dopo, al collegio dai Salesiani, trovai mille obblighi, l’orario, le messe tutti i giorni. In biblioteca, c’era l’elenco dei libri proibiti, divisi per categorie: C3 erano quelli “cautela, per adulti”. Erano consentiti Cuore e forse Pinocchio. Un prete trovò nel mio banco Senilità di Italo Svevo. Furono chiamati i miei genitori. Che, invece di difendermi, si scandalizzarono. Vidi una cosa logica trasformarsi in peccato. Il preside disse: dovrebbe leggere I dolori del giovane Werther. E io: C3, è vietato! Fu un colpo sgarbiano formidabile. I miei videro lì lo Sgarbi che iniziava a nascere. Sono state le proibizioni a portarmi alla trasgressione».
E che c’entra trasgredire con la violenza verbale?
«Questa è conseguenza dell’ispirazione di zio Bruno, fratello di mamma, grandissimo letterato. La sera, si parlava di politica e zio primeggiava sempre, aveva un tono polemico, argomenti che mi sembravano giusti. Fu una specie di transfert».
La folgorazione che si può prevalere con la cultura, anziché con la forza fisica?
«Esattamente».
Che cosa scatena lo Sgarbi fumantino che conosciamo?
«Un temperamento di fondo fatto di socievolezza: io sono accogliente, sono per gli imbucati, sono per i profughi, sono come Pier Paolo Pasolini per cercare di convertire chi mi odia, ma se qualcuno supera il confine, divento quell’altro Sgarbi. È un incidente imprevisto che lo scatena».
«Incidente imprevisto»? Non esibizionismo?
«Per me, passione e ragione significano: io ho passione, io ho ragione. Nel 1989, vado al Costanzo Show e, la prima volta, dico str...a a una preside, la seconda volta faccio piangere la fotografa Letizia Battaglia, la terza dico che voglio vedere morto Federico Zeri. Fino ad allora, guardavo la tv con distacco, lì ho capito che ha una velocità straordinaria nel trasmettere le idee. Oggi, sui social, ci sono mie risse vecchissime e perciò sono l’unico della mia età a cui i giovani chiedono selfie. Il mio pensiero sta vivendo per un tempo più lungo che per i miei coetanei».
La conoscono per le risse e questo la rende fiero?
Oggi provo tanta malinconia Io intemperante? No, sono mite per 23 ore e 55 minuti...
Mi commuovo per mia figlia
«Più che fiero, mi rende esistente. Un intellettuale per strada non esiste, il suo pensiero è chiuso nei suoi libri».
Quando si è dispiaciuto di aver esagerato?
«Sempre, subito dopo. Come ogni buon coccodrillo. Dopo, non per finta, dico: potevo risparmiarmelo. Ma la verità è che non potevo: era un flusso inarrestabile».
Ha tre figli da tre donne, si è definito un padre preterintezionale. Lo spirito della paternità l’ha mai sfiorata?
«Poco. L’ultima, Alba, mi commuove per la sua delicatezza e perché mi ha salvato dall’annegamento in mare. Non ero in reale pericolo, ma si è buttata per salvarmi».
Per che cosa ha pianto?
«Ho pianto ai funerali di zio Bruno. Ha avuto un infarto, come è successo a me, ma lui era solo. Il giorno in cui se n’è andato, in casa mia è entrato un San Domenico di Niccolò dell’Arca, uno scultore rarissimo, il cui spirito ha preso il posto di mio zio in casa. E ho pianto alla mostra di Caravaggio a Rovereto, aperta fra mille polemiche, poi chiusa per Covid, vedendo arrivare comunque tante persone».
La sua collezione d’arte è celebre, di quale acquisto è più orgoglioso?
«Le opere sono il modo in cui traduco il denaro in spirito. So trovare dipinti antichi a cifre contenute. Comprai un Guercino in Texas con 280 mila dollari che Corrado Passera mi fece prestare dalla banca. È sempre così: se hai i soldi, non trovi i quadri e, se trovi i quadri non hai i soldi».
Un’opera che ha rimpianto di non aver comprato?
«Tante. Una Pietà di Bellini murata in una cappella privata è uno dei pensieri stabili di ciò che avrei voluto avere».
Un libro che ha scritto che è felice di lasciare ai posteri?
«Tutti quelli su autori su cui non si era mai pubblicato, come Niccolò dell’Arca, Antonio da Crevalcore. E tutta la storia dell’arte pubblicata da mia sorella Elisabetta».
Sua sorella sostiene che lei sia molto sensibile.
«Abbiamo perso tutti i parenti. Sono diventato il suo figlio unico. Ma un aneddoto sulla sensibilità ce l’ho… Settimana scorsa, scopro che Lino Capolicchio stava morendo; sapevo che aveva dato un libro a Elisabetta. Le ho detto di pubblicarlo subito, poi ho chiamato lui. Era in ospedale, l’ho senti
to passare dalla morte all’entusiasmo. L’ho fatto per farlo andare via felice».