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 2022  maggio 06 Venerdì calendario

Intervista a Howard Kakita, sopravvissuto a Hiroshima

«Mi chiedo se Putin abbia mai guardato davvero le immagini di Hiroshima o Nagasaki. Mi chiedo se abbia mai ascoltato uno di noi, uno dei sopravvissuti. Probabilmente no, altrimenti non minaccerebbe di usare una nuova bomba nucleare». Howard Kakita ha 84 anni. Il 6 agosto 1945 ne aveva 7 e si trovava a poco più di un chilometro dall’epicentro dell’esplosione della bomba atomica sganciata su Hiroshima dall’Enola Gay. Sono passati 77 anni ma il mondo si ritrova a temere una guerra nucleare. «Quando ho visto che i russi attaccavano l’Ucraina in un’area con una centrale nucleare ho pensato alle scelte sbagliate dei leader che portarono alla devastazione della bomba atomica. E mi chiedo quale mente possa immaginare di utilizzare armi come quella che rischiano di scatenare un effetto a catena e portare devastazione in tutto il mondo», dice il signor Kakita, sopravvissuto e membro della American Society of Hiroshima and Nagasaki Bomb Survivors. Nato in California, i genitori decisero di portarlo insieme al fratello di poco più grande in Giappone dai nonni all’inizio del 1940, quando non aveva ancora due anni.
Che cosa ricorda di quel 6 agosto del 1945?
«Nel mezzo della notte suonarono le sirene perché si stava avvicinando un B-29. Mia nonna svegliò me e mio fratello e andammo al rifugio aereo. Poi tornammo a letto. Al risveglio c’era una giornata di sole bellissima. Ci preparammo per andare a scuola, perché era un lunedì. Sulla strada incontrammo diversi bambini che tornavano indietro. Ci dissero che c’erano ancora degli aerei nemici nella zona e che la scuola restava chiusa. Tornammo a casa ed eravamo felici, pensavamo di poter giocare tutto il giorno».
Dove si trovava al momento dell’esplosione?
«Io e mio fratello siamo saliti sul tetto della casa dei nostri nonni, che si trovava a 1,3 chilometri dall’epicentro dell’esplosione. Avevamo saputo che un aereo americano si muoveva verso Hiroshima e volevamo guardare la tipica scia di vapore bianco che quegli aerei lasciavano in cielo. Mia nonna, per fortuna, ci ordinò di scendere. La bomba venne sganciata alle 8 e 15. A qualche chilometro di distanza si vide una luce abbagliante e poi si udì l’esplosione. Ma noi eravamo troppo vicini, flash e boom furono simultanei. Anche se io non li ricordo. Ricordo solo quello che vidi dopo».
Che cosa vide?
«Le fiamme sui pezzi di casa caduti sopra di me, sentii l’odore di fumo. Riuscii a liberarmi non so come e ad alzarmi in piedi. Mio fratello correva verso di me dal cortile: aveva la fronte bruciata a causa delle radiazioni. Mio nonno stava cercando di tirare fuori mia nonna dalle macerie. Lei stava lavando i piatti di fronte alla finestra e aveva pezzi di vetro conficcati in tutto il corpo. Ma nessuna ferita era letale. Mio nonno non so come si salvò, non riuscì mai a raccontarmelo perché un anno dopo morì. Altri uomini stavano cercando di spegnere le fiamme. Era uno sforzo futile, ma nessuno di noi sapeva che non era solo la nostra strada a bruciare: l’intera città era stata cancellata. Ci dirigemmo verso la strada principale. Davanti a noi c’era un’immensa parata di persone che sembravano zombie: c’erano persone con la pelle che si staccava per le radiazioni, altre con arti spezzati, altre ancora cercavano di tenere le budella dentro il proprio corpo. Cadaveri e gente agonizzante ovunque. Camminammo per chilometri fino a prendere un treno per uscire dalla città».
Tornò a Hiroshima?
«Sì, quando finì la guerra. Ma non c’era più nulla. La distruzione era totale. Vivemmo per settimane in un buco nel terreno, fino a quando non riuscimmo ad assemblare in qualche modo una struttura con rottami e altri materiali. La bomba uccise istantaneamente 70 mila persone. Immaginate l’odore di quei cadaveri e dei corpi che venivano cremati. Noi sopravvivemmo, anche se le radiazioni ci fecero ammalare e perdere i capelli. Non tutta la famiglia fu così fortunata. I miei nonni materni erano contadini e stavano vendendo per strada delle patate dolci. Il corpo di mia nonna non fu mai trovato, mio nonno morì un mese dopo per le ferite».
E i suoi genitori?
«Nel giugno 1940 erano andati in America perché avevano ancora degli affari lì. Nel 1942, prima che potessero tornare in Giappone, furono portati nel campo di internamento di Poston, in Arizona. Così come tutti gli altri giapponesi o americani di origine giapponese. Saputo della bomba atomica, erano sicuri che fossimo morti. La Croce Rossa li avvisò dopo diverse settimane che eravamo ancora vivi. Ci misero tre anni a risparmiare abbastanza soldi per pagarci il viaggio. Ma io non volevo andare, non avevo nessun ricordo di loro».
Quali altri problemi le ha causato la bomba?
«Ho sofferto di disordini alimentari per circa 10 anni. Mi svegliavo di notte urlando. Ora però posso parlare di quello che mi è successo. Forse proprio perché l’ho vissuto quando ero così piccolo. Altri sopravvissuti più anziani non sono riusciti a mai parlarne. C’è stato però un altro episodio di devastazione nella mia vita».
Quale?
«Nel 1967 venne diagnosticato un cancro allo stomaco a mio figlio. Aveva 5 anni e morì pochi mesi dopo. Quando, qualche anno prima, incontrai mia moglie le dissi che temevo che non avrei vissuto a lungo a causa delle radiazioni nel corpo. Invece sono ancora qui, mio figlio no. Nonostante i medici mi abbiano detto che la sua malattia non c’entrava con le radiazioni, quel dubbio è sempre rimasto nei meandri della mia mente. E mi ha tenuto sveglio per tante notti».
Dal 1945 è tornato a Hiroshima?
«Diverse volte. Per alcuni anni ho vissuto in Giappone lavorando come ingegnere informatico. Quelli sono stati anni felici. Ho anche raccontato in pubblico la mia esperienza. Anche se ogni tanto mi ritrovo a pensare che forse io e gli altri sopravvissuti ne abbiamo parlato con le persone sbagliate».
Perché?
«Guardi a che cosa succede ora in Ucraina. La Russia minaccia persino di utilizzare bombe nucleari. Non riesco a capacitarmi come siamo finiti di nuovo in questa spirale pericolosa. Ma queste persone hanno visto o ascoltato che cosa è successo a noi? Credo di no. O forse siamo noi che parliamo solo a persone che vogliono sentirci. Dovremmo parlare a gente come Putin. Ma non so come potremmo riuscire a farci ascoltare». —