Corriere della Sera, 6 maggio 2022
Intervista a Mathieu Van Der Poel
La fila davanti al barbiere nell’accampamento della Alpecin-Fenix è lunga e ordinata. Mathieu Van Der Poel, 27 anni, la stella più luminosa del Giro che scatta oggi da Piazza degli Eroi, non ha fretta. La calma, oltre che dei giusti, è la virtù dei ciclisti da grandi corse a tappe: con l’abbronzatura a righe che gli regala il caschetto e la forza interiore che gli deriva dal dna della famiglia più famosa del ciclismo mondiale (il nonno è Raymond Poulidor, l’eterno secondo del Tour, il padre Adrie è stato un ottimo corridore da classiche), VDP è pronto alla sfida del primo Giro della carriera in un Paese, l’Italia, di cui ha sempre sentito parlare in salotto («Vado in ritiro a Livigno con la squadra una volta all’anno, apprezzo il vostro cibo, il caffè è ottimo ma della storia della corsa rosa so poco...») prima di farne esperienza diretta.
Mathieu, dopo 4 Mondiali nel cross, l’Amstel, il Fiandre, le Strade Bianche e la maglia gialla del Tour l’anno scorso, una nuova sfida.
«Dopo aver tifato davanti alla tv Tom Dumoulin nel 2017, adesso tocca a me. I primi giorni sono buoni per provare a vestire la maglia rosa. Ma l’idea è di arrivare fino a Verona, dentro l’Arena».
Il suo stile di corsa offensivo appassiona i tifosi.
«Correre all’arrembaggio è un pregio e un limite: ho vinto tante gare, altrettante ne ho perse. Comunque nel ciclismo conta una cosa sola: le gambe».
È mai stato in dubbio, nella sua vita e con quei parenti, che lei facesse il ciclista?
«Ho provato anche tennis e calcio, giocavo centrocampista. E vi assicuro che col pallone non ero niente male. Ma in realtà non mi sono mai chiesto che altro avrei potuto fare: salire in bicicletta da bambino è stata la cosa più semplice del mondo».
Il più grande insegnamento di Poulidor?
«Sii gentile e amichevole con tutti. Nonno lo era. È per questo che, nei limiti del possibile, non mi sottraggo agli autografi e ai selfie con i tifosi. Certo dopo un po’ devo andarmene, sennò il pullman della squadra mi lascia indietro!».
Nonno da Tour, papà da classiche. Lei, polivalente da mountain bike, cross e strada, sembra l’evoluzione naturale.
«Mi piace dedicarmi a tutte e tre le specialità, è vero. Da mio nonno ho ereditato la passione per le corse a tappe, da mio padre (che ha vinto due Monumenti come Giro delle Fiandre e Liegi) la cultura delle grandi classiche. Quest’anno sono concentrato sulla strada ma a Parigi 2024 voglio l’oro della mountain bike. L’emozione di ogni disciplina è diversa, l’obiettivo è sempre arrivare primo al traguardo».
Ai Giochi di Tokyo l’oro l’ha perso per un’ingenua distrazione in un passaggio al primo giro del tracciato.
«A oggi quella resta la più grande delusione della mia carriera. Per metabolizzarla ci ho messo molto tempo».
Curiosa anche la sua multinazionalità: nonno francese, padre olandese come lei, che è nato a Kapellen, in Belgio.
«Di francese non ho nulla, lo è la parte materna della mia famiglia. Ho sempre vissuto nelle Fiandre e sono fiero delle mie origini: mi piace parlarne, adoro proseguire gesta e nome degli antenati».
La famiglia
Poulidor, il nonno, è stato un esempio, come mio papà. In effetti non potevo che finire in bici
Atipico anche che lei non viva a Montecarlo, in Svizzera o ad Andorra come la maggior parte dei suoi colleghi.
«Oddio no, Montecarlo non fa per me: non sarei mai felice lì».
Quando è stato più felice?
«Al Tour, l’anno scorso, quando ho vinto la seconda tappa e ho indossato la maglia gialla, che ho tenuto per sei giorni. Credo che nemmeno se diventassi campione del mondo sarei più emozionato di quel giorno: ho ripensato a nonno Raymond, alle sue imprese, al fatto che lui, scomparso nel 2019, non abbia potuto vedermi sul podio. La maglia gialla era il mio sogno. Ora voglio quella rosa».
Il suo duello con Pogacar all’ultimo Giro delle Fiandre è già nella storia del ciclismo: ha vinto rischiando di farsi beffare dagli inseguitori che stavano recuperando.
«So che quella di arrivare quasi a fermare la bici per spiazzare Tadej a tutti è sembrata una scelta super tattica e rischiosa ma io non ho mai perso il controllo della situazione».
Pogacar è davvero un extraterrestre?
«È un corridore con qualità assolutamente fuori del comune, specie se si considera la sua età. A me piacciono molto la sua educazione e la disponibilità con tutti. Ci sentiamo, ci scriviamo».
Lei e Van Aert, due fenomeni: cresciuti sui prati del ciclocross, rivali da bambini.
«Abbiamo origini comuni ma ora caratteristiche diverse. In corsa ogni tanto parliamo, fuori no: non siamo amici».
Alla fine di ogni gara, lei si accascia sull’asfalto come se avesse esaurito ogni energia. Non rischia, alla lunga, di pagare tanta generosità?
«È il mio modo di correre: quando vedo la linea del traguardo penso che devo superarla senza risparmiare nulla. Credo che qui dovrò cambiare tattica altrimenti rischio di non arrivare a Verona...».
In che modo finire il Giro farebbe di lei un corridore migliore?
«Beh il mio motore acquisterebbe cilindri, la mia carriera esperienza. Sento dire da sempre che il Giro è un’avventura, un romanzo rosa da sfogliare giorno per giorno. Sono molto curioso».