Corriere della Sera, 6 maggio 2022
Intervista a Jannik Sinner
In un’esistenza corta vent’anni, otto mesi e venti giorni ma piena di cose (cinque tornei vinti, due quarti di finale Slam, varie ed eventuali) e già pericolosamente inclinata verso l’agiografia spinta e il superlativismo assoluto (tutto ciò che lo riguarda, sul megafono acritico dei social, è straordinario, eccezionale, incredibile e/o formidabile), ci pensa Jannik Sinner da Sesto Pusteria, con laconica asciuttezza, a tenerci con i piedi per terra: «A me piace giocare a tennis. Tutto il resto – la classifica, la popolarità, il successo – viene dopo».
Dopo il giochino che faceva in cameretta quando aveva 7 anni (a proposito di agiografia), raccontato dal primo maestro, Heribert Mayr di Brunico: «Aveva una voglia incredibile di migliorare e una fretta indiavolata di imparare. Non stava mai fermo né accettava di sbagliare, benché fosse agli inizi. Finita la lezione, riprendeva subito in mano la racchetta: palleggiava contro la parete della camera, cercando di centrare l’interruttore e di spegnere e accendere, con la pallina, la luce». Dopo l’improvvisata super mediatica che gli fece Fiorello durante il festival di Sanremo 2020, quando Jannik si allenava a Bordighera con l’ex coach Riccardo Piatti. Dopo le curiosità spicciole che riguardano un ragazzo italiano di grande talento, già top 10, oggi numero 12 della classifica mondiale, disposto a bruciare le tappe: alla Playstation sceglie il Manchester City di De Bruyne, quando torna a casa (poco) sbrana volentieri il Wiener Schnitzel di nonna Maria, i capelli li taglia solo quando gli fanno le «alette» sotto il cappellino, per un periodo ha frequentato una modella-influencer. Disinnescata qualsiasi scintilla di polemica sulla definizione di altoatesino o sudtirolese («Chiamami come ti pare, per me è uguale. Sono nato a un passo dall’Austria, sono italiano, gioco la Davis in azzurro e mi alleno con un coach italiano» ha detto al Corriere), non resta che parlare dell’unico argomento che, da bravo nerd 3.0, gli interessa – il tennis – con qualche digressione fuori campo.
Jannik alla sua età stupisce per la maturità e la non disponibilità a perdere. Si racconta che da bambino, in Alto Adige, battuto a calcio pianse per giorni.
«Ci sono sconfitte più preziose di tante vittorie: ti fanno male però aiutano a crescere, sono lezioni necessarie. È vero che quando gioco a tennis vorrei sempre vincere. A me quello che interessa è crescere di livello nel torneo: a Montecarlo, per esempio, anche se sono uscito nei quarti, mi sono piaciuto».
La differenza con il n.3 tedesco Sasha Zverev, alla fine, sono state due palle sul nastro.
«Due palle sul nastro di troppo, però».
Tra Montecarlo e Madrid, in vista degli Internazionali del Foro Italico a Roma, al via lunedì, una settimana di stacco. Qual è il suo concetto di riposo?
«Vacanze poche e corte, fin qui. Sono sempre stato un dormiglione: la mia giornata tipo di riposo è dormire fino a tardi, giocare con la Playstation e tornare a letto... La cosa che mi riposa di più in assoluto è tornare a casa da mamma Siglinde, papà Hanspeter e mio fratello Mark. Sento molto la natura e le mie montagne: con una passeggiata nel bosco sono in grado di recuperare mesi di stanchezza. Posso permettermelo di rado, però».
Lo scorso marzo, alla vigilia dell’impegno di Davis contro la Slovacchia, è salito a Plan de Corones per una sciata con Lindsey Vonn. Come è andata?
«Benissimo! Sciare con lei era uno dei miei sogni. Io vengo dallo sci, slalom e gigante, di cui sono stato campione italiano junior. Da ragazzino mi piaceva Bode Miller ma incontrare la Vonn è stato mitico: è arrivata a casa mia, siamo saliti insieme, ci siamo conosciuti».
Le ha chiesto qualche utile consiglio?
«È stato interessante capire come una campionessa affronta lo sport, ascoltare i sacrifici di una carriera, imparare dai suoi infortuni. Reputo le ore passate con Lindsey un privilegio».
E se le chiedessero di fare l’apripista a Milano-Cortina 2026, l’Olimpiade invernale italiana?
«Eh, mi piacerebbe... Me l’hanno già chiesto in Val Gardena un paio d’anni fa, per la gara di Coppa del Mondo. Ne ho parlato con il mio primo maestro di sci, ero tentato ma poi non mi sono fidato».
Di chi?
«Di me stesso! Mi conosco troppo bene: al cancelletto voglio buttarmi giù di testa, senza freni, essere competitivo fino al traguardo. E invece oggi sono costretto ad andare piano, a sciare conservativo per non rischiare di farmi male, sarebbe un bel guaio. Insomma, a Milano-Cortina dovrei dire di no, però sciando con la Vonn mi è venuta un’idea: la prossima volta che vado in montagna mi compro una GoPro, la monto sul casco e poi pubblico tutto in una storia su Instagram».
Perché dopo sette anni con Riccardo Piatti ha cambiato allenatore, Sinner? Squadra che vince, di solito, non si cambia.
«Mi sono buttato nel fuoco. A me sembra un gesto di coraggio».
Cosa cercava di diverso?
«Con Simone Vagnozzi sto di più in campo, privilegiamo la qualità sulla quantità, abbiamo alzato il livello. Ho sperimentato cose diverse, che prima non sentivo».
Può fare un esempio?
«È difficile da spiegare... Le cose più o meno sono sempre le stesse, ma Simone me le spiega diversamente, o perlomeno a me arrivano in modo nuovo. Parliamo di più».
Senza racchetta
Quando non sono in gara o non devo allenarmi la mia giornata tipo è dormire fino a tardi, giocare con la Playstation e poi ritornare a letto
L’impressione è che, da teenager, a un certo punto abbia cominciato a starle stretta la disciplina di Piatti.
«Non dico che prima fosse sbagliato il lavoro che facevo, tutt’altro: con Riccardo per sette anni abbiamo fatto cose incredibili, lo ringrazio ancora. Se sono arrivato fin qui è proprio grazie alla base di lavoro che mi portavo dietro. Però, insomma, sentivo che un cambiamento era diventato necessario. Dopo un giorno con Simone mi sembrava di conoscerlo da vent’anni».
L’ascesa furibonda dello spagnolo Carlos Alcaraz, che ha due anni meno di lei ed è già top 10, ha inciso nella sua voglia di cambiamento?
«No, ognuno gioca il suo tennis e fa il suo percorso. Non penso mai a Carlos, alla sua velocità di crescita, al suo talento. Penso a me stesso».
Viviamo tempi difficili, Jannik. I superprofessionisti dello sport vivono in una bolla ovattata ma fuori c’è la guerra e il torneo più importante del mondo, Wimbledon, ha deciso di bandire russi e bielorussi per non dare visibilità e prestigio al regime di Putin. Giusto o sbagliato?
«Quello che sta succedendo in Ucraina è una tragedia: i miei pensieri sono con le famiglie di chi soffre, con i bambini coinvolti nel conflitto. A me dispiace per i tennisti russi, sono davvero triste per loro: a mio parere gli atleti non dovrebbero mai essere coinvolti nelle discussioni politiche. Spero che la guerra finisca e che tutto si risolva al più presto possibile. È un tema molto delicato, non saprei che altro aggiungere».
È vero che lo scorso gennaio, all’inizio della stagione in Australia, aveva pensato a Boris Becker (oggi in prigione per bancarotta fraudolenta) come super coach?
«È uno dei nomi che avevamo immaginato, gli altri non li dico. Per ora scelgo di fare le cose semplici: io, l’allenatore, il fisioterapista e il preparatore atletico. Nessun super coach; non è detto che non possa arrivare ma non è il momento».
In una vita itinerante, zeppa di rivali, è possibile avere un migliore amico?
«Ho ottimi rapporti con tanti giocatori del circuito: ci si incontra regolarmente ai tornei, si chiacchiera, si va a cena. Ma la persona che mi conosce meglio di tutti è Alex Vittur, ex giocatore delle mie parti. La mia storia di tennista è cominciata con lui quando avevo 12 anni, grazie ad Alex sono andato a Bordighera da Piatti, mi conosce a memoria, sa tutto di me. È amico, fratello, famiglia».
Il ritorno del 40enne Roger Federer in palestra è una buona notizia per il tennis?
«Direi di sì, anche se la strada è lunga. Con il talento che ha, Roger può sempre sorprendere. Mi piacerebbe affrontarlo prima che si ritiri, è l’unico dei Big Three che mi manca, con Nadal e Djokovic ho giocato. Sarebbe bellissimo: lo racconterò ai miei nipoti in montagna, davanti al caminetto».
Questo tennis così fluido, senza un vero dominatore, potrebbe favorire quel definitivo cambio generazionale di cui lei è l’alfiere insieme ad Alcaraz?
«I migliori sembrano in difficoltà ma la verità è che Nadal ha vinto l’Australian Open e che Djokovic, che ha scelto di non fare il vaccino e fin qui ha giocato poco, ritroverà la forma in vista di Parigi. Io non so se siamo pronti per un ribaltone però di certo sono fortunato ad essere lì nel gruppo di testa. È un tennis divertente da giocare e, credo, da vedere».
Tre oggetti che non possono mai mancare sul suo comodino.
«Un tablet per serie e film quando viaggio, un computer per giocare a Fortnite con gli amici. E un libro: ho cominciato a leggere!».
Beh questa è la notizia migliore di tutta l’intervista, Jannik. Salinger, Dostoevskij?
«LeBron James».
Ah, ecco.
«Mi sono appassionato alle biografie sportive: Open di Agassi è in lista d’attesa, sto finendo il libro della Vonn, ho letto Adrenalina di Ibrahimovic. Io, tifoso rossonero, ho incontrato Ibra a Milanello: la sua voce mi è rimasta stampata in testa, per curiosità ho comprato la sua bio e boom, l’ho trovata bellissima. Mi piacciono anche i libri di psicologia dello sport, ma a Roma e Parigi porto LeBron, che è grosso e mi dura».
E un suo libro quando?
«È presto. Voglio aspettare ancora un po’ per avere più cose belle da raccontare».