11 aprile 2022
Tags : Marcello Lippi
Biografia di Marcello Lippi
Marcello Lippi, nato a Viareggio (Lucca) l’11 aprile 1948 (74 anni). Ex calciatore (difensore) ed ex allenatore. L’unico della storia ad aver vinto il titolo mondiale con la nazionale (Italia 2006) e la coppa Intercontinentale con una squadra di club (Juventus 1996). «Nessuno mi può più dire: secondo te? Secondo no, sono arrivato primo».
Vita «Se lo ricorda il primo pallone? “Bianco e nero di gomma leggera, il Super Flex per giocare in spiaggia, e quello di cuoio col legaccio al campo: se pioveva, pesava cento chili. E se lo prendevi di testa nel punto della stringa, ti timbrava la faccia”. Che ragazzo era Marcello? “Un tipo estroverso ma tranquillo che amava il calcio e viveva profondamente la sua città, Viareggio. Sei mesi all’anno a giocare a pallone sulla sabbia e gli altri sei a giocarci in pineta, la mamma verso sera chiamava, io rispondevo ‘di già?’. Poca scuola, solo fino alla terza media: il mio difetto”. Però ha fatto il pasticciere. “Ero il garzone di mio padre e ho lavorato anche in un negozio di lampadari e articoli elettrici. A volte mi assentavo per il calcio. Il contabile, un ragioniere con gli occhialoni e la vocetta da aguzzino mi diceva: vedrai che prima o poi ti licenziano. Io rispondevo: fatti i cazzi tuoi!”» (a Maurizio Crosetti) • «“È troppo bello per diventare qualcuno nel calcio” aveva sentenziato Fulvio Bernardini che pure lo fece debuttare in Serie A. Papà Salvatore pasticciere, mamma Adele sarta. Era il figlio di mezzo di tre, una sorella, un fratello minore. La sua prima squadra si chiamava Stella Rossa. Aveva un anarchico per allenatore, Ilario Niccoli, detto “Carrara”. Gli procurò un provino con la Sampdoria. Marcello aveva 16 anni. Restò a Genova per 16 anni. Scoprì la Serie A. Un libero moderno, dotato di buona tecnica, capace di costruire e anche di segnare. Realizzò un bel gol anche a San Siro contro l’Inter. Presto esordì in Nazionale, nell’under 23, il 17 febbraio 1971, a Bari: Italia-Israele 2-0. Dopo 239 partite in maglia blucerchiata, Giorgis non lo volle più. Allora, nel 1979, passò alla Pistoiese e provò l’ebbrezza della promozione in serie A. Dopo tre anni alla Pistoiese e l’ultima stagione alla Lucchese, dopo il supercorso di Coverciano, Mantovani lo rivolle alla Sampdoria e gli affidò la panchina della Primavera» (Claudio Gregori). «Dopo tre anni con i giovani mi resi conto che non era quello che volevo. Io cercavo la disputa, l’adrenalina, volevo delle sfide. Allora, pur sapendo di rischiare, tentai l’avventura a Pontedera, in C2. La prima panchina vera? Derthona-Pontedera 3-0. Fu una sconfitta senza attenuanti e dentro di me dicevo: chi me l’ha fatto fare? Nella mia carriera c’è una costante di risultati negativi all’inizio di ogni nuova esperienza. Tanto che quando in nazionale ho perso la prima partita in Islanda, mi sono detto: o.k., ci siamo». L’anno dopo, a Siena, in C1 arrivò il primo esonero. «Lì difatti incominciai bene. Visto che porta male partire sparati? Quando, a metà campionato, il presidente mi licenziò, mi sembrò che il mondo mi fosse crollato addosso. Avevo lasciato le certezze della Samp e mi resi subito conto che quando scivoli, non scivoli di un gradino ma ti fai tutta la scala». Andò in C2, a Pistoia: «Senza stipendio da novembre a giugno e la stessa cosa mi sarebbe successa a Napoli. A Pistoia recuperai meno della metà dei soldi. Siccome la squadra l’avevo fatta io, i giocatori se la prendevano con me: mister, i soldi? E io: non mollate, se abbiamo una sola possibilità di recuperarli è quella di fare bene. Per distoglierli dai discorsi sugli stipendi, all’improvviso decisi di giocare a zona. Così almeno li distraevo negli allenamenti. La mia soddisfazione fu che, l’anno successivo, quasi tutti quei ragazzi andarono in C1». Poi Carrara. «Raccolsi l’eredità di Orrico. Arrivammo terzi e facemmo benissimo. Giocavamo con quattro difensori a zona, due centrocampisti centrali, Carli e Fiordisaggio, e poi Picasso che avevo avuto alla Samp a destra, una punta, Mainardi, che svariava a tutto campo, un certo Pierelli che faceva il regista avanzato, e Puppi, un’ala sinistra alla Recoba. E ad aprile mi chiamò il Cesena, finalmente Serie A, dopo che mi avevano seguito il Parma e, soprattutto, la Cremonese. Ma Erminio Favalli non riuscì a convincere in tempo il presidente Luzzara». Deludente anche l’esordio in Serie A da allenatore. «Perdemmo in casa con il Milan: 0-3. Quell’anno ci salvammo all’ultima giornata battendo il Verona di Bagnoli. Gol di Agostini, il Condor. Giocavamo un bel calcio. L’anno dopo mi esonerarono a metà campionato ma il Cesena retrocesse comunque e io fui costretto a ricominciare daccapo, dalla Lucchese, Serie B». Poi l’Atalanta. «Arrivammo sesti, per un punto non andammo in Uefa. Battemmo squadroni come Fiorentina, Roma e Juve. Giocavamo con tre attaccanti, Ganz, Rambaudi e Carlo Perrone. Me ne andai perché, discutendo del rinnovo del contratto, il presidente Percassi mi chiese altre due settimane per riflettere. La presi male: “Mi cerco un’altra squadra e voi cercatevi un altro allenatore. Se dopo sette mesi non avete ancora le idee chiare...”. Così dopo un po’ mi chiamò Ottavio Bianchi, che faceva il direttore generale a Napoli. Grande annata pure quella». Nel 1994 arrivò alla Juventus: «Dieci giorni prima della Juve mi aveva chiamato Ernesto Pellegrini che mi voleva all’Inter. Andai a cena a casa sua, sua moglie mi fece scrivere qualcosa per fare la prova grafologica, sembrava fosse andato tutto bene. Una settimana dopo mi chiama il direttore sportivo Mariottini per confermarmi che tutto era o.k. ma che il presidente aveva ancora bisogno di tempo. E siccome questa risposta non arrivava, firmai per i bianconeri» (da un’intervista di Alberto Costa) • «Si era chiusa l’era Boniperti. Una svolta epocale come può avvenire soltanto in grandi gruppi finanziari, dove la programmazione si definisce strategia aziendale e si lega a cambiamenti massicci. Via Giampiero Boniperti, dentro Antonio Giraudo. Via un intero staff dirigenziale, dentro un altro. Con Giraudo, ecco arrivare Bettega vicepresidente, e soprattutto lui, il Lucianone Moggi, plenipotenziario, furbo, tentacolare come un polpo, allievo prediletto di Italo Allodi. Come conseguenza logica finì anche l’era Trapattoni. La scelta cadde, un po’ a sorpresa, su Marcello Lippi già soddisfatto di aver trovato un suo spicchio di gloria a Napoli, dopo la controversa esperienza all’Atalanta. Non aveva lavorato male, migliorando il piazzamento dell’anno precedente con un sesto posto che gli valse l’ingresso in coppa Uefa. Pensava di girare l’Europa col Napoli, invece gli arrivò la proposta di Moggi per passare alla Juventus. “Ti vuole una società bianconera...”. Lippi tentò di stare allo scherzo e ribatté che lui a Cesena c’era già stato. In realtà aveva fiutato il momento solenne, l’offerta alla quale è impossibile dire di no» (Gino Bacci). «Berlusconi mandò Capello a scuola di management negli Stati Uniti, prima di affidargli il Milan dominatore della prima parte del decennio. La Juve di Giraudo, Bettega, Moggi esordì invece ponendosi il problema di trovare un’altra “mentalità vincente”, diversa da quella rossonera. Lippi si incaricò di assumerne il volto pubblico. E dominò la seconda metà del decennio. Il patto Milan-Juve, si disse. Ma quel che accadde veramente dietro le quinte è ancora oggetto di indagine. Certo, un concetto come quello del turn-over e del controllo ferreo dello spogliatoio, per cui Lippi passa agli onori della storia calcistica italiana, incarna la lividità postindustriale della Juve nell’era del tramonto della Fiat. Il Milan aveva dalla sua il glamour dello spettacolo e della tv, quindi quello del neopopulismo berlusconiano. La Juve non nasceva dalla tv, ma dalle macerie dell’industria. Una sequenza infinita di silenzi stampa. Non aveva neppure uno stadio all’altezza, data la costante e spettrale vuotezza delle tribune al Delle Alpi. Lippi per la Vecchia Signora ha inventato un calcio pressoché iconoclasta, basato sul pressing, la verticalizzazione, la forza. Chiamò la sua prima Juventus (con Vialli, Ravanelli, Di Livio), “squadra di Rambo”. Veltroni, tifoso entusiasta del primo scudetto del ciclo Lippi, lo avvicinò a Ciampi. Arrigo Sacchi gli concesse una definitiva benedizione: “Ha abbattuto tutti i Moloch della tradizione: squadra che vince non si cambia; conta solo la fantasia; in una squadra sono importanti 4 o 5 giocatori e non 20”. Zeman, infine, inventò una delle battute di un duello che da solo è in grado di raccontare tutta la storia del nostro calcio negli ultimi quindici anni: “Se si vince con la sola forza si ammazza il calcio”. Seguirà la battuta ferale del boemo sulla Juventus “all’avanguardia nella farmacologia” per via dei muscoli gonfiati di Vialli e Del Piero. Fu pronunciata nell’autunno 1998 e da lì nacque il lungo processo per doping» (Alberto Piccinini) • Sulla panchina della Juventus vinse oltre alla coppa Intercontinentale, cinque scudetti (1995, 1996, 1998, 2002, 2003), una Champions League (1996, perdendo le finali del 1997, 1998, 2003), una coppa Italia (1995) ecc. • Allo scoppio di Calciopoli (primavera 2006), oltre che dal decennale rapporto con Moggi fu messo in imbarazzo dal fatto che il figlio Davide (Genova 9 agosto 1977) faceva parte della Gea, società che gestiva le procure di numerosi calciatori. Molti arrivarono a sostenere che avesse favorito nelle convocazioni gli assistiti del figlio e che la convocazione di Iaquinta al posto di Cristiano Lucarelli per gli imminenti mondiali fosse dovuta a questa ragione. Per qualche giorno, sembrò sul punto di lasciare l’incarico, cosa che fece comunque dopo aver condotto gli azzurri al quarto titolo mondiale • Con Rosa Alberoni ha raccontato il successo mondiale ne La squadra (Rizzoli 2006) • Un paio d’anni da commentatore tv per Sky, qualche spot pubblicitario interpretato (Giancarlo Dotto: «Come attore è negato. Una vera schifezza»), poi il 26 giugno 2008, 719 giorni dopo la notte di Italia-Francia (Berlino 9 luglio 2006) è tornato alla guida della nazionale, complice il modesto risultato della squadra di Donadoni agli Europei (eliminazione nei quarti di finale ai calci di rigore contro la Spagna poi campione, ma vincendo un solo match su 4 e con un pesantissimo 0-3 contro l’Olanda). Disastrosi i mondiali 2010 in Sudafrica: l’Italia esce subito dopo due pareggi con Paraguay e Nuova Zelanda e una sconfitta con la Slovacchia • Dal 2012 al 2014 ha allenato il Guangzhou Evergrande, squadra della Chinese Super League, di nuovo su una panchina di club a otto anni di distanza (contratto da circa dieci milioni di euro a stagione) • «Ho avuto la fortuna di aver vinto tutto e mi era passata la voglia del calcio a grandi livelli. Cercavo qualcosa di completamente diverso. Mi pesava tornare in un club. Ho ricevuto diverse offerte, sono andato a vedere se potevo allenare negli Emirati. Quando sono stato chiamato da Canton, ho subito capito che era l’offerta giusta. Non sono un ipocrita: economicamente non potevo rifiutare la proposta» (a Ugo Trani) • In Cina ha vinto tre campionati (2012, 2013 e 2014), una coppa nazionale (2012) e un Champions League asiatica (il 9 novembre 2013 contro il Seul Fc) • Nominato commissario tecnico della nazionale cinese nel 2016, ha fallito la qualificazione ai Mondiali del 2018 in Russia. Alla Coppa d’Asia 2019 la Cina è uscita ai quarti contro l’Iran perdendo per 3-0. Ha lasciato la guida della nazionale cinese dopo 31 partite, 12 vittorie, 8 pareggi e 11 sconfitte. Richiamato nel maggio 2019 al posto del dimissionario Fabio Cannavaro, si è dimesso dopo appena sei mesi dopo • Ha annunciato il ritiro da allenatore il 22 ottobre 2020 • Sposato con Simonetta Barabino (nozze il primo luglio 1974), ha anche una figlia, Stefania (qualche piccola esperienza in tv), da cui ha avuto un nipote, Lorenzo, romanista.
Critica «Un maestro: grande allenatore e grande uomo. Nel suo gruppo non c’era nessuna regola scritta, ma era come se ce ne fossero tante perché nessuno sgarrava: questo significa saper gestire una squadra» (Gennaro Gattuso) • «Noi, egli dice ai giocatori, siamo come attorno ad una tavola piena di cibo. Ma non siamo soli, vi sono altri. Chi mangerà di più? Chi ha più fame. Così, in un campionato, vincerà chi è più motivato a vincere. Ma dopo aver vinto, la fame diminuisce, scompare. Come si fa a rinnovarla anno dopo anno, in modo da continuare a vincere? È il segreto dei condottieri. Alessandro, Cesare hanno trascinato i loro uomini di campagna in campagna per anni ed anni, per migliaia di chilometri, vincendo sempre. Lippi ha questo dono» (Francesco Alberoni) • «In confronto a quello di Lippi, il culo di Sacchi era un coriandolo» (Aldo Agroppi).
Politica «Ero e resto socialista... Che tipo di socialista? Mah... un socialista all’antica. Come mio padre. Per capirci: basta aprire il vocabolario e leggere alla voce “socialista”».
Vizi Fuma il sigaro • Ama il mare. Nel 2007 comprò uno yacht di 18 metri (Azimut 62 Evolution) • «Mi sento come a 55 anni, come a 58, faccio i tuffi dalla barca e dal pontile, vado 40 metri sott’acqua. Il tempo è solo questione di salute» (nel 2018 a Maurizio Crosetti).