29 aprile 2022
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Biografia di Jane Campion (Elizabeth Jane Campion)
Jane Campion (Elizabeth Jane Campion), nata a Wellington (Nuova Zelanda) il 30 aprile 1954 (68 anni). Regista. Sceneggiatrice. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti, due premi Oscar, uno per la migliore sceneggiatura originale (1994, per Lezioni di piano) e uno per il miglior regista (2022, per Il potere del cane), due Leoni d’argento, di cui un Gran premio della giuria (1990, per Un angelo alla mia tavola) e un Premio speciale per la regia (2021, per Il potere del cane) e una Palma d’oro (1993, per Lezioni di piano). «Io sono neozelandese e credo che questa terra così lontana e silenziosa mi abbia regalato una visione unica sul mondo e sull’umanità» • «Donna sensibile la cui gioventù viene raccontata, nelle biografie, con gli aggettivi “appartata, solitaria”, sottolineando una scarsa tensione alla socialità. […] La biografia della regista ci regala molti punti in comune con le storie da lei raccontate. Jane è figlia di Edith, un’orfana che eredita una fortuna immensa dal nonno ed è allevata da tutrici e governanti, e di Richard, che a quattordici anni fugge dall’ordine religioso che gli vietava radio, libri e film. I due s’incontrano a Londra: a unirli è la passione per il teatro, che riportano in Nuova Zelanda con una compagnia shakespeariana itinerante, che si fa stanziale con l’arrivo della figliolanza. La ricorrenza di elementi biografici nella filmografia, ecco. L’incontro tra anime gemelle (che diventa dei genitori di Flora in Lezioni di piano, di quelli di Frannie in In the Cut), la depressione della madre Edith (affrontata attraverso la scrittrice protagonista di Un angelo alla mia tavola), l’intolleranza verso sette e religioni (al centro di Holy Smoke)» (Arianna Finos). «Mia madre era un’attrice e una donna sofisticata che mi portava a Wellington a vedere i film di Luis Buñuel, che ancora non capivo. Ma intanto mi nutrivo dell’immaginazione di Emily Brontë, traendone il bisogno di rappresentare memorabili storie femminili che sarebbe diventato il cuore del mio lavoro» (a Stefano Pistolini). «Sono cresciuta divorando i romanzi ottocenteschi: non so perché, il presente mi ha sempre interessata meno». «Il fatto di essere figlia di due professionisti dello spettacolo ha regalato a Jane Campion la voglia ribelle di occuparsi d’altro: “L’idea di seguire bovinamente il percorso dei genitori è orribile: ho cercato di evitarlo per molto tempo”» (Finos). «Sia ben chiaro, io sono molto orgogliosa della mia famiglia. Ma, mano a mano che stavo crescendo, sentivo che c’era qualche cosa di esagerato nei toni e nelle abitudini con cui vivevamo. Per questo, probabilmente, ho desiderato studiare qualche cosa che fosse più materiale e vicino alla realtà» (a Tiziana Morganti). «Si è occupata, ragazza, di psicologia e pedagogia, poi si è laureata in Antropologia all’Università di Wellington. E ha iniziato un vorticoso itinerario che l’autrice regalerà a tante protagoniste dei suoi film. Si è messa in viaggio per l’Europa, ha studiato arte a Venezia, ha trovato lavoro in una casa di pubblicità a Londra. È rientrata a Sydney per conoscere la pittura, quindi è stata ammessa alla prestigiosa Australian Film Television and Radio School. Sono ormai gli anni Ottanta, e l’antropologa ha finalmente trovato la sua strada nel cinema» (Finos). «A vent’anni mi sentivo perduta: non sapevo assolutamente cosa fare della mia vita ed ero depressa. A scuola ero troppo timida per partecipare alle recite, così decisi di filmarle con una Super 8. Divenni completamente ossessionata dal cinema, lavoravo 16 ore al giorno ed ero felice. Non avrei mai pensato di diventare regista, e, al termine del mio primo cortometraggio, mi ricoverarono in ospedale per il troppo stress. […] In realtà, più che depressa ero senza scopo: il cinema è stato come quando succede qualcosa di decisivo. Prima avevo avuto un ragazzo, ma il cinema è stato molto meglio». «Ricordo perfettamente il mio primo cortometraggio. Si trattava di una storia d’amore tra due letti singoli. L’ho realizzato durante la scuola di cinema, ma purtroppo è andato perso. Quel periodo, lo ricordo con particolare entusiasmo. Ero motivata in modo incredibile, volevo mettermi alla prova anche se non sapevo assolutamente se ne sarei stata all’altezza». «Da ragazza avevo un caratteraccio. Ho cercato di ammorbidirlo. Le prime volte che sono andata sul set ero terrorizzata, convinta che tutti mi odiassero o mi considerassero una nullità» (ad Alberto Crespi). «Fu Pierre Rissient a imporla all’attenzione di spettatori e critici, in una memorabile edizione del Festival di Cannes per il quale lavorava. Era il 1986, e l’irruzione della talentuosa regista sulla scena mondiale, sapientemente orchestrato, fece l’effetto di una rivelazione. Peel, Passionless Moments, A Girl’s Own Story e, soprattutto, Two Friends erano intense e originali esplorazioni di nuovi modi di concepire il racconto cinematografico. […] Tre anni dopo, la Campion tornò sulla Croisette con il suo primo lungometraggio, Sweetie: non vinse nulla a Cannes, ma la Francia volle comunque onorarla con il prestigioso premio Sadoul, riservato agli esordienti» (Alberto Barbera). «La proiezione stampa fu memorabile: applausi e fischi in ugual misura, entrambi assordanti. Il classico film “che divide”. La storia di due sorelle, una delle quali sovrappeso e dai comportamenti estremi, che si contendono l’attenzione degli adulti era molto perturbante; e lo stile era fiammeggiante, raffinato, originalissimo» (Crespi). Nel 1990 il debutto alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. «Campion aveva diretto una serie tv che poteva essere “stretta” in un film di quasi tre ore ed era quindi papabile per il concorso veneziano. Un angelo alla mia tavola venne e sfiorò il Leone d’oro, e stavolta i fischi furono tutti per il film che – a detta di molti – gliel’aveva “rubato”, Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard. […] Alla premiazione (vinse il Gran premio della giuria) si presentò come una scolaretta al primo giorno di scuola: scarpe da ginnastica con calzettoni bianchi, calzoncini corti, gilet verde della stessa stoffa dei pantaloni, camicetta bianca e zaino a tracolla. E pensare che quasi tutti i registi presenti in quella sala sarebbero dovuti andare a lezione da lei. Tre anni dopo ci fu la consacrazione di Cannes: Palma d’oro per Lezioni di piano» (Crespi). «Jane Campion fu la prima regista donna a vincere il Festival di Cannes con The Piano. La storia della donna muta che, in compagnia della sua bambina, viene spedita nella Nuova Zelanda della metà dell’Ottocento per sposare un proprietario terriero che non conosce (Sam Neill), ma che invece s’innamora d’un ruvido agricoltore (Harvey Keitel), venne salutata da un’ovazione di venti minuti, conquistò la Palma d’oro e arrivò dritta alla notte degli Oscar, dove si aggiudicò tre statuette, per le due protagoniste femminili Holly Hunter e Anna Paquin e per la stessa Campion, autrice della sceneggiatura. Divenuto un classico del cinema romantico, Lezioni di piano è un’opera sulla forza di volontà delle donne, capace di entrare in sintonia anche con l’universo femminile dei nostri giorni. […] “Il film parla del risveglio della sensualità in una donna priva di strumenti di apprendimento”» (Pistolini). «La Nuova Zelanda e le donne, lo sfondo e il centro del cinema della regista. […] Non è un caso che il capolavoro simbolo della sua filmografia, Lezioni di piano, abbia raccontato l’esplodere della passione carnale nel mondo ottocentesco dei primi coloni dell’isola. “I protagonisti si ritrovano impreparati al potere del sesso, al contrario degli indigeni Maori, che giocano nel film un ruolo fondamentale, parlano apertamente di peni e vagine, usano simboli sessuali nella comunicazione di ogni giorno”. Lo spirito anglosassone rigido e puritano si è liberato, nel film, alla naturalezza della vita aborigena. Antropologia e poesia» (Finos). «Due settimane dopo aver vinto la Palma d’oro a Cannes ho perso mio figlio: aveva dodici giorni. Ero completamente distrutta. Per un anno sono uscita dalla vita: niente mi toccava. Poi è stato il cinema, l’amore per il mestiere, a riportarmi a vivere. E anche il fatto che un anno dopo il lutto è nata mia figlia Alice, la mia opera migliore. Dopo un dolore come quello ti devi reinventare, sai che non crederai più alle stesse storie, guardi il mondo in modo diverso e meno meraviglioso». «Sembrava l’avvio di una carriera gloriosa, e invece, con poche eccezioni, le opere che verranno saranno perlopiù contestate. […] Dopo i virulenti attacchi riservati al thriller erotico In the Cut, nel 2003, Jane Campion si è presa una pausa lunga sei anni. […] La capacità squisita di raccontare la passione di cuori giovani, romantica, travolgente, distruttiva e poetica, torna in Bright Star, la stella lucente appunto, film-ballata sul travagliato rapporto tra John Keats e Fanny Brawne, che terminò con la morte prematura del giovane poeta a Roma, nel febbraio del 1821, a venticinque anni. […] Anche se Bright Star racconta la storia di Keats, la prospettiva è quella di Fanny, sfortunata eroina che s’aggiunge alla galleria di ritratti femminili di Jane Campion: la ribelle di Sweetie, la scrittrice di Un angelo alla mia tavola, l’ereditiera di Ritratto di signora, ambiziosa trasposizione del libro di Henry James» (Finos). «Nel 2013 ha realizzato per la Bbc Top of the Lake. Il mistero del lago, miniserie premiatissima scritta con Gerard Lee, suo storico collaboratore. E nel 2017 ha girato il sequel… “Grazie a queste serie ho avuto la possibilità di lavorare immersa nella natura incontaminata, l’habitat a cui sento di appartenere. Ho un animo contemplativo e passo delle ore solo a seguire il succedersi di eventi naturali, come la crescita d’una pianta, il volgere del sole, o i modi in cui illumina gli oggetti. Girando Il mistero del lago ho soddisfatto queste aspirazioni, contando sui notevoli mezzi che una tv può assicurarti. E ho realizzato una storia che sarà piaciuta alle persone che hanno amato Lezioni di piano, perché gli ingredienti sono gli stessi: la follia che abita la mente di tante persone, il lato più selvaggio della natura, il tema dell’immigrazione e quello dei personaggi femminili travolti dalle passioni. In più ho avuto il piacere di tornare a lavorare con Holly Hunter e quello più intimo di dirigere mia figlia Alice Englert”» (Pistolini). Nel 2021 il ritorno al grande schermo, con The Power of the Dog, grazie al quale nel marzo 2022 fu la terza donna a conquistare il premio Oscar al miglior regista (cui era già stata candidata nel 1994 per Lezioni di piano). «Il film, pur non essendo il migliore della regista, arriva al momento giusto: da un lato affronta tutte le tematiche d’attualità in questo scorcio storico, dall’altro sembra (sottolineiamo: sembra) un omaggio alla vecchia Hollywood e al suo genere più iconico (il western) e ha valori indubbiamente forti, dalla splendida fotografia alle ottime prove di attori importanti» (Crespi). «Dopo aver letto il romanzo di Thomas Savage Il potere del cane (Neri Pozza, ndr), ne sono rimasta ossessionata. È la storia di due fratelli, uno con un carattere affabile e gentile, l’altro arcigno e crudele. E dell’arrivo, in questa tensione psicologica, di una donna destinata a rompere gli equilibri. Una storia potente, quasi intossicante, che andava portata sul grande schermo» (Pistolini). «Credo si possa definire uno studio sulla mascolinità. Oggi che molte più donne narrano storie femminili, era forse giunto per me il momento di un ritratto maschile» • Sposata dal 1992 al 2001 col suo ex assistente regista Colin David Englert, da cui ha avuto i due figli • «Non mi tingo i capelli, non faccio ritocchi estetici» • «La neozelandese Campion, con il tempo, ha mitigato il carattere spigoloso degli inizi: “Ho ancora il disturbo da stress post-traumatico dovuto ai critici a inizio carriera”, ha raccontato» (Finos) • «La regista più nota e più importante del mondo anglosassone assieme a Kathryn Bigelow» (Crespi). «Il suo cinema, popolato di eroine femminili dalla tempra forte ma romantica, mette a fuoco il tema della ricerca d’una identità femminile difficile da conquistare» (Simone Porrovecchio). «La più amata e controversa esploratrice della passione e della sensualità femminile» (Finos) • «Il suo cinema – che ha raccontato storie di donne molto diverse tra loro ma accomunate dall’essere “intrappolate tra due situazioni: essere veramente sé stesse e trovare l’amore” – ha una forte impronta letteraria. Il film del 1990 Un angelo alla mia tavola si basa sulle tre autobiografie della scrittrice neozelandese Janet Frame. Ritratto di signora – del 1996, con Nicole Kidman e John Malkovich – è un adattamento del romanzo (1880-81) di Henry James. Anche il thriller erotico con Meg Ryan In the Cut (2003) è tratto da un libro, Dentro, della britannica Susanna Moore. […] Poi c’è la sceneggiatura di Lezioni di piano. Una sceneggiatura “originale”, quindi non tratta da un altro testo. Ma la regista ha sempre rivendicato la fonte letteraria del film, che si ispira alla letteratura dell’Ottocento che lei ama, e in particolare all’atmosfera di Cime tempestose di Emily Brontë» (Cecilia Bressanelli) • «Lei, nel ’93, fresca del trionfo a Cannes e sull’onda dell’improvvisa celebrità, si spese per sostenere la causa femminile nel cinema. Le cose sono cambiate? “Davvero pochissimo, purtroppo. E la cosa mi provoca sconforto e incredulità. Io vengo da una terra come la Nuova Zelanda, dove vige una fissazione collettiva per il concetto di uguaglianza: da noi tutto deve essere suddiviso in modo bilanciato, equo, ogni opportunità, ogni regola. Dunque, un fenomeno del genere ci appare doppiamente insensato. Ma il patriarcato come forma di governo del mondo del cinema e il capitalismo come arma del maschilismo sono duri a morire. Sebbene di recente sia successo qualcosa di importante, chiamato #MeToo”. Sorpresa dallo scandalo Weinstein? “Scherziamo? Era una cosa di cui nell’ambiente era a conoscenza chiunque. Ma il silenzio e la complicità coprivano tutto. Va reso merito ai giornalisti del NY Times e del New Yorker per aver sfondato il muro dell’omertà: l’effetto è stato quello di una vera rivoluzione, paragonabile, fatte le proporzioni, alla caduta del Muro di Berlino o alla fine dell’apartheid”. […] Lei non è mai riuscita a lavorare a Hollywood. “Mi hanno cercato, ho ricevuto offerte e riconosco che a Hollywood lavorano magnificamente per ottenere i risultati che cercano. Ma non è il mio mondo, non mi ci sento a mio agio, non ci vedo i margini di libertà indispensabili per realizzare il mio cinema. Per cui ho sempre preferito cercare altre strade produttive, che poi significa forme di finanziamento alternative. Per fortuna le ho sempre trovate. E, in sostanza, credo che i miei film siano adatti proprio a quel pubblico che Hollywood non riesce a soddisfare coi suoi prodotti”» (Pistolini). «Il finanziamento dei film è ancora un mondo impenetrabile e maschile e continua a escludere le donne. In televisione è molto diverso: la tv ha un pubblico femminile molto forte e ci sono storie di donne molto interessanti, […] e spesso dietro a questi progetti ci sono delle donne. Le autrici sono riuscite a rendere la tematica femminile interessante per tutti: non si tratta più di “Oh una storia di donna, che noia, vogliamo un supereroe”. Certo c’è ancora un problema che riguarda i produttori, ma anche i critici e i reporter che sono ancora in gran numero maschi, ma questo cambierà perché le donne sono super-intelligenti» (a Chiara Ugolini) • «Nella sua produzione Jane Campion passa senza timore dal cinema alla tv: […] “Cerco il mezzo più adatto al mio progetto e quello che mi concede assoluta libertà”. Ancora una volta torna la letteratura: “Spesso penso alle serie tv non tanto in chiave episodica quanto a una narrazione che ha il respiro ampio di un romanzo. Mentre un film è più come un racconto. La letteratura è la chiave attraverso cui ho compreso molte cose che poi ho portato nel mio cinema”» (Bressanelli) • «Quando devo girare un film, l’ultimo giorno prima di cominciare non lavoro mai: lo passo dal parrucchiere, a farmi le unghie e a comprare vestiti che possano dare il tono delle riprese. […] Quando finisco un film di solito non voglio vederlo più: ho dedicato talmente tanto tempo a prepararlo, girarlo e montarlo… Onestamente c’è sempre un sentimento di sofferenza quando vedo un mio film: ci sono anche momenti di sottile piacere ma anche scene che pensi non siano abbastanza buone, che avresti potuto fare meglio. Col tuo film vorresti restituire quello stesso regalo che hai ricevuto da altri registi, vorresti che fosse un dono forte, bellissimo e sorprendente. È eccitante vedere qualcuno che riceve un regalo e chiedersi: gli piacerà? Io sono sempre emozionata nel presentare un film, ma in quanto neozelandese non posso permettermi di mostrare la mia eccitazione. Forse non lo sapete, ma da noi è vietato mostrare le emozioni, è illegale: potresti essere arrestato per questo!» • «Io sono una che ha impiegato cinque anni per capire l’importanza dell’Oscar che avevo vinto per Lezioni di piano. Non sapevo che era stato un evento straordinario, il sogno di ogni cineasta americano. Mi sembrava, anche quello, semplicemente uno stereotipo. Forse perché da neozelandese vivo davvero in un altro mondo».