Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  maggio 05 Giovedì calendario

Orsini, anatomia di un "complessista"

Ogni crisi fa emergere i suoi esperti. La pandemia ne ha prodotti moltissimi, la guerra in Ucraina, uno su tutti: il Professor Alessandro Orsini. Come nel caso dei virologi, anche lui si è affermato per via della sua casacca di accademico. O meglio ancora, di ricercatore sul campo, o “field researcher”, come ama dire in inglese.
In televisione, il Professor Orsini indossa quella casacca in modo assertivo, impartendo nano-lezioni ricche di termini come «specializzazione delle funzioni», ma andando a scavare nel suo percorso scientifico, emergono una dote e un problema. La dote, unanimemente riconosciuta, è la sua devozione allo studio. Il problema è messo in evidenza dal Professor Francesco Ramella, sociologo dell’Università di Torino. «Dietro l’assertività di Orsini, nei Cv che ho potuto visionare online non trovo una singola pubblicazione scientifica sulla materia in cui si cimenta in Tv. Allora mi domando: lo si invita per l’originalità o la profondità del suo sapere scientifico, o perché sa creare un meccanismo morboso di attenzione mediatica?» osserva il sociologo, stigmatizzando «la commistione che avviene in alcuni talk-politici tra il ruolo dell’esperto e quello dell’opinion maker».
Ma da studioso universitario, e più precisamente professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, Orsini un’expertise indubbiamente la ha. In un campo soprattutto: quello del terrorismo. Ha infatti pubblicato svariate monografie e ricerche “etnografiche” su terrorismo rosso, nero e jihadista. Abbiamo dunque fatto un approfondimento (la versione completa della nostra inchiesta si trova sul sito de La Stampa).
Il Professor Orsini si è rifiutato di parlarci, ma dal suo Cv si viene a sapere che dal 2013 al 2016 «è stato direttore del Centro per lo studio del terrorismo dell’Università di Roma Tor Vergata» e che dai primi del 2017 è «direttore dell’Osservatorio per la sicurezza internazionale della Luiss», due cariche apparentemente importanti in due istituti universitari di tutto rispetto che hanno lanciato la sua figura mediatica. Ma prodotti scientifici di questi due centri non se ne trovano.
Nel caso di Tor Vergata, si trova traccia solo di una conferenza tenuta due mesi e mezzo dopo la costituzione del Centro stesso. Null’altro per il resto dei tre anni. Ci viene poi spiegato che la struttura «non ha mai fatto nulla», e che «è rimasto sulla carta». Parole di Franco Salvatori, all’epoca direttore del Dipartimento di Tor Vergata a cui era affiliato il Centro di Orsini.
Quando abbiamo chiesto dettagli al direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, quello al quale sono legati Orsini e il suo Osservatorio di studi sulla sicurezza, ci è stato detto che questo «non è supervisionato dal Dipartimento». Né il Direttore delle relazioni esterne né la Direzione Generale ci hanno saputo dire chi alla Luiss ha finora avuto la responsabilità di supervisionare le attività del centro di Orsini, o quali attività abbia mai svolto l’Osservatorio. Il 30 aprile, la Luiss ha poi comunicato che «i canali di comunicazione dell’Osservatorio da oggi non sono più attivi».
Continuiamo lo scavo. Laureato in sociologia, con un dottorato in Teoria e storia della formazione delle classi politiche, Alessandro Orsini acquisisce notorietà come esperto di terrorismo grazie al volume Anatomia delle Brigate Rosse, pubblicato sia in Italia sia negli Stati Uniti (dalla prestigiosa Cornell University Press).
In termini di metodologia sociologica, il volume di Orsini offre un qualcosa di molto innovativo, che ha fatto sicuramente colpo sugli americani. Parliamo del cosiddetto Dria (acronimo di Disintegrazione, ricostruzione, integrazione, alienazione), un modello interpretativo del processo di radicalizzazione dei brigatisti che l’autore spiega essere stato «costruito principalmente ricorrendo a testimonianze di brigatisti pluriomicidi», ma grazie anche a deposizioni processuali, risoluzioni strategiche, documenti e lettere private di brigatisti.
Si può dunque immaginare la sorpresa quando, in un post della pagina Facebook del Professore relativo al successivo libro dell’Isis, si parla del modello Dria e si dice che «si basa sull’analisi comparata della vita di 39 jihadisti che hanno realizzato un omicidio o una strage nelle città occidentali». Al di là della discordanza sulla sua origine, il modello Dria sarebbe dunque universale. In altre parole, studiando Sociologia a Trento, Renato Curcio avrebbe ideato le Brigate Rosse in base agli stessi meccanismi che, fumando marijuana a Bruxelles fuori dalle moschee salafite, hanno spinto Abdelhamid Abaaoud a ideare la strage del Bataclan.
Non siamo i soli ad avere delle perplessità. «Ho l’impressione che, con il suo lavoro, Orsini voglia costruire delle tipologie e dinamiche generali, per poi applicarle anche in contesti storici dove non funzionano», ci dice lo storico ed esperto di violenza religiosa della Northern Illinois University Brian Sandberg.
Pubblicazioni come questa non hanno aiutato Orsini a ottenere il riconoscimento dei colleghi, che per due volte non gli hanno riconosciuto l’abilitazione al concorso di nazionale di idoneità all’insegnamento universitario di prima fascia di Sociologia politica, quello dei professori ordinari. Ci è riuscito solo al terzo tentativo nel luglio del 2020. Ma in Sociologia generale.
Nel negargli l’abilitazione da ordinario di Sociologia politica, il suo collega della Luiss, Professor Raffaele De Mucci, ha scritto che nei suoi lavori, «contrariamente all’insegnamento di Weber, è la realtà che deve adattarsi al modello, non viceversa», e ha parlato di «improbabile approccio metodologico». Il Professor Franco Pina, ordinario di Sociologia dell’Università di Torino, ha invece scritto che appare «più proteso a cercare conferme dei suoi schemi interpretativi che a mettere alla prova ipotesi teoriche definite sulla scorta della letteratura o di proprie elaborazioni». Mentre il professor Roberto Segatori, sociologo dell’Università di Perugia, ha criticato il suo «certo riduttivismo interpretativo».
Questa nostra ricostruzione non fa neppure un cenno alle posizioni prese dal professor Orsini sull’Ucraina, perché non si intende in alcuno modo mettere in discussione la legittimità delle sue opinioni di non esperto in materia. È difficile però non notare che corrispondono a un’esigenza da lui espressa in un volume pubblicato solo negli Usa – quella di «mettere in discussione il pensiero convenzionale su determinati fenomeni politici». Con l’invasione russa dell’Ucraina, i massmedia italiani gli hanno dato l’opportunità di farlo. E lui ci si è buttato a capofitto. —