la Repubblica, 5 maggio 2022
In morte di Lino Capolicchio
Maurizio Porro per il Corriere
Con la morte, a 78 anni, di Lino Capolicchio, scomparso a Roma la sera del 2 maggio dopo una lunga malattia che la famiglia ha voluto tenere riservata, se ne va un attore rimasto sempre negli anni giovane e in cui si riconosce molto del miglior cinema italiano degli anni 70, evitando ogni facile classificazione: non fu un sex symbol, né un proletario, né un borghese, né un radical chic, ma tutte queste cose insieme, erede sia di Salvatori sia di Ferzetti, passando infatti dal Premio Valentino per Amore e ginnastica al premio De Sica nel 2012.
Così, pronto per giocare a tennis, disperatamente elegante in epoca fascista, lo si ricorda perfetto nei panni di Giorgio amico della famiglia Finzi Contini nel premiato (anche con Oscar al miglior film straniero) film di De Sica, tratto dalla più nota storia ferrarese di Giorgio Bassani che fu, all’Accademia, uno dei primi insegnanti dell’attore che, nato a Merano il 21 agosto del 1943 e cresciuto a Torino, presto si trasferisce a Roma. Dove studia e si applica per completare il suo istinto dichiarato di attore con una naturale ma frenata voglia di esibirsi: frequenta l’Accademia, viene a contatto con la classe dirigente dei registi di allora, da Patroni Griffi ad Avati, con cui farà cinque film variamente diabolici, a Franco Zeffirelli che gli regala una comparsata d’onore nella Bisbetica domata a tu per tu con Richard Burton. Ma prima ancora del cinema, Capolicchio fa l’Università in teatro con Giorgio Strehler, nelle Baruffe goldoniane e nel Gioco dei potenti shakespeariano, e poi due Miller, con Raf Vallone nello Sguardo dal ponte e L’orologio americano diretto da Petri.
Uomo di spettacolo a 360 gradi, attivo in tv, in prosa e in sceneggiati come Il conte di Montecristo, anche regista d’opera pucciniano, apprezzato docente al Centro Sperimentale dove allevò una generazione di attori, da Ferilli a Forte a Boni, ed ebbe come spettatore niente meno che Coppola.
Anni 70
Interprete del miglior cinema italiano degli anni 70, lontano da facili classificazioni
Queste ed altre avventure, umane e professionali, dentro e fuori dal set e dai camerini, le racconta nella sua autobiografia D’amore non si muore, parafrasando un suo film tratto da una commedia best seller di Patroni Griffi, in un momento felice per lo spettacolo in Italia in cui Capolicchio divenne, con calcolate sfumature di ambiguità, attore di sfacciata giovinezza, padrone di diversi ambienti e geografie, dallo snobismo borghese romano di Metti, una sera a cena di Patroni Griffi (sceneggiato da Dario Argento, ritmato dal refrain di Morricone, grande cast) all’autostoppista milanese che finisce in spyder nel Giovane normale di Risi tratto dal libro di Umberto Simonetta. Capolicchio è richiesto, lavora con tutti, dal ribelle Faenza allo storico Lizzani a De Santis, cinema off e cinema di tradizione, è a proprio agio in varie epoche storiche, ma certo Pupi Avati, che ha sempre amato avere una sua compagnia stabile di attori, scopre un suo lato gotico, misterioso e nascosto, iniziando alla grande con La casa dalla finestre che ridono una collaborazione che arriva a Il signor Diavolo, passando per un 700 in cui Lino fu papà di Mozart e due serie tv Jazz band e Cinema!!!.
Una lunga serie di titoli, un giro d’Italia dei vari tipi umani e modelli registici, la capacità di osservare da vicino il passato, ed anche esperienze all’estero. Sul piccolo schermo lavora coi migliori come Sandro Bolchi e Fenoglio, affrontando, allora si poteva fare, il miglior teatro contemporaneo, da Pinter a Wesker, senza negarsi il tocco nazional popolare del Verdi di Castellani e della Casa Ricordi di Bolognini. E rimane un suo legame con il melò americano di Tennessee Williams che lo vede oggetto di desiderio prima in Zoo di vetro e poi in teatro con Falk in La dolce ala della giovinezza.
Capolicchio ha la fortuna di non identificarsi in una tipologia e di lavorare con i maestri di opposte tendenze, anche l’innovativo Ronconi televisivo nella Commedia della seduzione di Schnitzler: è un attore colto in un sistema di spettacolo che, al di là dei premi e della sua popolarità, rispondeva alle sue curiosità anche di regista, docente e sceneggiatore, di un attore rimasto per il pubblico sempre giovane.
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Chiara Ugolini per la RepubblicaLo sguardo dolce e innamorato del giovane Giorgio de Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica, quello inquieto e preoccupato del restauratore di La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati. E poi tanti altri sguardi: l’amante diMetti una sera a cena di Patroni Griffi, l’autostoppista de Il giovane normale di Dino Risi, il padre di Mozart in Noi tre sempre di Avati.
È morto a Roma a 78 anni Lino Capolicchio, interprete raffinato, divo schivo che nel momento della massima fama, reduce dal David di Donatello per il film di De Sica, dell’Orso d’Oro a Berlino e l’Oscar come miglior film straniero, sceglieva di puntare su un regista reduce da un insuccesso. «Lui era una star, aveva vinto l’Oscar – ricorda addolorato Pupi Avati che lo ha reso il suo alter ego – Io ero in grande difficoltà, avevo fatto un film che era stato sequestrato,Bordella, non riuscivo a farne altri. Quando io e mio fratello con il copione diLa casa dalle finestre che ridono dicemmo che Capolicchio lo avrebbe fatto, trovammo subito i finanziamenti».
Nato a Merano, cresciuto a Torino, Capolicchio scoprì la recitazione attraverso il teatro, arrivò a Roma per frequentare l’Accademiad’arte drammatica Silvio D’Amico, esordì con Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano, applaudito dal pubblico e dalla critica. Il primo ruolo sullo schermo è televisivo: la Rai lo chiamò a interpretare Andrea Cavalcanti nello sceneggiato Il conte di Montecristo (1966), poi un piccolo ruolo ne La bisbetica domata di Zeffirelli. L’attenzione internazionale viene grazie al film tratto dal romanzo di Giorgio Bassani, ambientato nella Ferrara delle leggi razziali dove lo studente ebreo figlio di un commerciante si ritrova accolto nel mondo dorato dell’alta borghesia, insperatamente vicino alla ragazza di cui è innamorato da sempre, Micol, interpretata da Dominique Sanda. Che dall’Uruguay manda un ricordo dell’amico e collega: «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo – scrive l’attrice francese citando l’Ecclesiaste – Sapere questo! È arrivato il momento della tua morte Lino e sono triste. Addio Lino, riposa in pace».
«Avevo avuto Bassani come insegnante di Storia del teatro all’Accademia, mi ero innamorato del libro – aveva raccontato anni fa in un’intervista a Christian De Sica – ma mai avrei immaginato che un giorno sarei stato l’interprete di un film tratto da lì. I primi giorni sul set furono un’emozione totale. Tuo padre era un grande psicologo, come ogni buon regista deve essere. Aveva capito quanto io somigliassi a quel personaggio. Rispetto a tanti ruoli interpretati questo è quello cui sono più vicino. Io sono un po’ Giorgio. Devo moltissimo a questo film che mi ha fatto conoscere nel mondo».
Con Avati ha realizzato sei film e due sceneggiati tv, l’ultimo ruolo, il sacerdote de Il signor diavolo,nuovo horror a 40 anni dal primo, per l’amico a cui non si poteva dire di no. È stato insegnante presso il Centro sperimentale di cinematografia di Roma dove intercettò talenti come Iaia Forte, Francesca Neri, Sabrina Ferilli, un giovane Paolo Virzì e ottenne l’apprezzamento di registi come Francis Ford Coppola che, di passaggio a Roma, chiese di poter seguire unadelle sue lezioni.