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 2022  maggio 05 Giovedì calendario

L’ultimo libro della Parrella

Uno degli anagrammi del nome- e-cognome di Valeria Parrella è: «parlare la rivela». E qualche cosa di lei la casualità di quest’esito enigmistico rivela davvero, poiché nei romanzi e nei racconti della scrittrice (a partire dall’esordio di Mosca più balena di vent’anni fa) la dimensione del parlato emerge sempre. Un parlato corrente e assieme alto, scelto ma non per questo meno spontaneo.
Ora però Valeria Parrella cambia. Cominciando dall’esterno, cambia casa editrice, affida a Feltrinelli il suo ultimo romanzo, che si intitolaLa Fortuna. In modo molto più intrinseco abbandona l’usuale presente contemporaneo, o l’appena passato, per ambientare il suo nuovo romanzo nei diciassette anni che separano il terremoto di Pompei del 62 era volgare dall’eruzione del Vesuvio (79 e.v). La conoscenza e la passione per l’antico finora avevano animato più che altro i suoi scritti per il teatro.
Il risultato è un romanzo assai inconsueto, per un’epoca come la nostra in cui la scrittura narrativa indugia più volentieri sull’io-qui-ora e le ambientazioni storiche attirano casomai scrittori di noir in vena di digressioni in costume. Ma nell’anomalia, e sia pure da un punto di vista tanto decentrato, il lettore di Valeria Parrella riconoscerà bene i temi del corpo e delle sue limitazioni; della giovinezza, della paternità e della maternità; del destino e della fortuna – fortuna che è la nave che ti porta ed è la tempesta che la può distruggere, nonché la dea Iside che potrebbe deviartelo, il destino, baciandoti. A meno che Làchesi non ti conceda il privilegio di tenere in mano il filo della tua vita che lei, Parca di mezzo, non tesse né reciderà ma svolge.
Lucio è nato a Pompei la notte del terremoto e lì è cresciuto. Agli studi romani di retorica e a divenire perlomeno senatore lo destinano, in positivo, la sua nascita nobile da un padre proconsole, assai altolocato nelle gerarchie imperiali, e, in negativo, la malformazione che toglie un occhio alla sua vista e potrebbe ostacolare la vocazione alternativa che Lucio sente per sé: la chiamata del mare. Studierà retorica con Quintiliano, frequenterà Marziale ma vedrà anche il suo destino deviarsi: riuscirà a divenire ufficiale di Marina a Capo Miseno, sotto il comando dell’ammiraglio Plinio il Vecchio. Sarà anzi lui a salutarne lo sbarco definitivo a Stabia, quando l’eruzione – qui detta «il prodigio» – avrà già cominciato a manifestare la sua potenza e Plinio, colui che ha come fine dell’esistenza «sapere le cose», vorrà sapere anche questa.
La trama intreccia le vicende di Lucio (le volute che il filo fa uscendo dal fuso della Parca) e le svelte e sapienti inquadrature di una quotidianità antica che non ha nulla di archeologico, tanto è viva. Ma a dar vigore e anima alle pagine sono le conclusioni continuamente provvisorie che il pensoso Lucio trae su di sé, sui limiti suoi e sui limiti del mondo: «L’idea che ci facciamo del mondo è il mondo finché non ci diranno, no ce n’è un’altra porzione, no ci sono altre leggi, no non ci vedi bene – oppure non te lo diranno mai e allora ti crederai quel mondo finché non arriverà il sicario a rimetterti al tuo posto». Chi sarà il sicario incaricato di far fuori il tuo universo di riferimento? In un mondo così gerarchizzato e impietoso ci si aspetterebbe l’intervento di un bravo castratore. Ma Valeria Parrella non è narratrice di preclusioni: persinonella logica dell’imperio cerca il margine di gioco e il bello è che lo trova.
Fra il proprio desiderio e la sua interdizione Lucio non vedrà perciò aprirsi un baratro. Forse non saprà mai che nella realtà storica il suo amico Plinio Secondo il Giovane avrebbe scritto in un’epistola la fraseFortes fortuna iuvat che si legge in epigrafe al romanzo. Ma nel romanzo stesso lo zio di costui, e cioè il Vecchio, anticiperà il motto in una variante significativa: «LaFortuna aiuta chi le si affida». L’audacia è un affidarsi, così come l’amore è un inizio. E il limite? Sempre Plinio zio, qui: «Un limite è un limite solo se uno lo sente come un limite, sennò non è niente».
L’occhio storto e non recettivo è ciò che a Lucio consente di sentir convivere in sé il sano e il malato, la luce e l’ombra. È proprio la presenza di quell’organo inservibile che gli fa prendere in mano il filo della Parca di mezzo: senza iattanza e senza parere viola proibizioni, tradisce, si procura esperienze fuori dal raggio dello sguardo di genitori e maestri, mira a un futuro che mal si concilia al suo passato e con le sue parole stupisce l’imperatore, del tutto disavvezzo a «incontrare un giovane uomo che sa quello che vuole, e quello che vuole è meno di quello che potremmo offrirgli». Di Lucio e la sua autrice rimane da dire appunto a proposito delle parole. Si rivelano entrambi nel parlare, ma lui – che la sua autrice fa eloquente allievo di Quintiliano – pure rigetta le lezioni del maestro. Per raccontare il mondo, dice, «devi staccarti da esso, io invece ci voglio stare dentro, ma così dentro da essere tutto pieno e nessuno spazio deve poter essere colmato dalle parole». E così un nuovo spazio bianco – dopo quello a cui è intitolato un altro suo bel romanzo – si insinua tra le righe della scrittura di Valeria Parrella. Il suo lettore alla fine deve ammettere: se lo aspettava.