la Repubblica, 5 maggio 2022
Chi era Berlinguer
Soffermandosi sulle parole di Berlinguer, sugli avvenimenti che lo videro protagonista, sulle decisioni che fu chiamato a prendere, sembra sia passato un secolo, tanti sono i cambiamenti intervenuti da allora. E però, non è certo inutile riflettere su di lui, sulle sue idee, sulla fatica e sulle difficoltà della sua ricerca, sulle vicende di cui fu protagonista. E non è certo fuori luogo porsi quella domanda. Se, cioè, Berlinguer fu un innovatore o meno rispetto alla tradizione alla quale apparteneva.
Per cercare una risposta si potrebbe intanto partire da un aspetto fondamentale, che il racconto di Fiori aiuta a ben comprendere. Quello dell’idea della politica che animava Berlinguer. Un’idea permeata di integrità assoluta, di intransigenza ideale, di attenzione costante e tenace all’interesse generale, al bene pubblico. Convinzioni profonde, inamovibili, che lo portarono a sollevare il grande tema della moralità nella politica e a vedere, senza timore e prima degli altri, cosa stava accadendo nelle pieghe più profonde del nostro paese: la degenerazione della vita pubblica, la diffusione dei poteri occulti, l’ipertrofia del sistema dei partiti e la trasformazione di alcuni di essi in puri strumenti di consenso e di potere. Ci volle coraggio per tenere la barra ferma su queste posizioni. Essendo consapevole, peraltro, di essere pressoché inascoltato.
Questo non vuol dire che fu sempre pronto a capire i cambiamenti, che ebbe in ogni occasione la necessaria capacità di innovazione. Ci sono scelte, compiute in quegli anni, che oggi appaiono segnate da elementi di conservatorismo. E anche allora, senza ricorrere al senno di poi, è vero che a diversi di noi, dirigenti più giovani, sarebbe piaciuto vederlo spingere di più sull’acceleratore. Mentre invece succedeva che a volte le sue intuizioni, i suoi passi in avanti, fossero seguiti da affermazioni più rassicuranti. Dipendeva dalla sua preoccupazione, quasi un assillo, di dover portare con sé il grande corpo del partito, evitando lacerazioni e rotture. Per questo il solco restava quello di una «continuità» che poteva prevedere il rinnovamento, ma non la cesura, non la messa in discussione dei tratti identitari più profondi.
Dopo di che, sapeva battersi contro i ritardi culturali e le resistenze ai mutamenti radicate nella sua stessa parte politica, senza paura e con la capacità di mettere in moto, anche affrontando il peso della solitudine, i processi politici che riteneva necessari. In questo senso, per tornare alla nostra domanda, non si può certo dire che fu prigioniero della tradizione. Fu un innovatore, che si muoveva nel suo tempo, capace di portare il Pci ben oltre le colonne d’Ercole del consenso elettorale che, dal dopoguerra, non era mai arrivato oltre il 28 per cento. Con la sua segreteria i comunisti italiani raggiunsero la percentuale del 34, una cifra che, nella sua storia, la sinistra italiana conoscerà solo in un’altra occasione. Il Pci in quegli anni diventò un luogo politico al quale guardavano anche persone non «ideologicamente» comuniste, che non accetta vano la dittatura del proletariato né la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e tantomeno il partito unico. Persone che amavano più l’Occidente che i paesi socialisti, più la giustizia sociale che l’egualitarismo. Ma che consideravano il Pci il partito che si batteva dalla parte degli ultimi, che aveva una concezione sana della politica, che difendeva diritti civili e sociali. E che, con Berlinguer, avviava la necessaria separazione, fino al finanziamento, dall’orbita sovietica. Nella quale, seppur con tutta l’originalità e la sapienza dell’originalità nazionale, i comunisti italiani, fino alla segreteria di Berlinguer, erano rimasti sostanzialmente imbrigliati.
Sul piano interno, la grande sfida di Berlinguer fu quella di rompere l’immobilità di una situazione – la famosa conventio ad excludendum – che voleva il Pci sempre e comunque all’opposizione, sia lavorando pazientemente per far assumere al partito la cultura e l’identità di una forza di governo, sia intervenendo sul piano dei rapporti e delle alleanze tra le forze politiche e sociali del paese, per preparare in prospettiva, nel tempo, la possibilità di un’alternativa anche in Italia.
La strategia del compromesso storico fu, di questa sfida, senz’altro il punto più alto. Fu il momento della ricerca dell’incontro tra le grandi componenti popolari della società italiana. Fu una politica che doveva passare attraverso l’interlocuzione,essenziale, con la Democrazia cristiana e con Aldo Moro, convinto anch’egli della necessità di aprire una nuova stagione. Non sarebbe stato facile. Di questo Berlinguer era convinto. E in effetti si trattò di un cammino lungo e contrastato, che di fatto si esaurì politicamente, in modo drammatico, con il rapimento e la morte di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse. Perché i due leader avevano sfidato le logiche di quella guerra fredda dalla quale l’idea della collaborazione tra le grandi forze popolari voleva distaccarsi. Era troppo presto. O troppo tardi.
Si chiuse così la stagione che avrebbe dovuto aprire una fase diversa della vita politica italiana. Il Pci rimase, per usare un’espressione ormai consolidata, in mezzo al guado: la linea dell’alternativa democratica, annunciata da Berlinguer a Salerno alla fine del 1980, fu portata avanti senza aver completato l’indispensabile passaggio della legittimazione comunista attraverso una partecipazione al governo e con l’enorme limite della mancanza degli interlocutori necessari a realizzarla, visto che il Psi di Craxi aveva ormai scelto la strada della «collaborazione conflittuale» con la Dc all’interno del pentapartito e aveva avviato una aperta e dura competizione politica e ideologica con il Pci in vista di un riequilibrio all’interno della sinistra italiana. Una sfida politica e culturale che forse si sarebbe dovuta accettare a viso aperto. Di Berlinguer restano, in questi anni, da una parte le preoccupate analisi sullo «scadimento di livello» della politica italiana – al cui interno vedeva i segni di un grave impoverimento culturale, il venir meno del respiro ideale, il prevalere della lotta tra correnti e gruppi rivali che non si curavano degli interessi generali – e dall’altra lo scontro sul decreto del governo Craxi che rivedeva il meccanismo di funzionamento della scala mobile. Fu questa, insieme a quella per le elezioni europee del 1984, la sua ultima battaglia politica. Una battaglia prevalentemente «difensiva», senza la piena comprensione dei mutamenti economici e sociali e dei processi di modernizzazione in atto nel paese, che proseguì senza di lui e si concluse con la sconfitta nel referendum dell’anno successivo. Nello stesso periodo Berlinguer cercò di estendere i confini anche culturali della sinistra guardando ai movimenti ambientalisti, alla cultura della differenza, alle conseguenze antropologiche delle nuove tecnologie, all’interdipendenza nel mondo globale.
Berlinguer, insomma, fu tutto questo. Si può dire che portò al massimo livello possibile il mutamento e l’apertura del Pci, in quel tempo storico e nei recinti di quella identità. Fu la consapevolezza dell’esigenza del mutamento e al tempo stesso il tentativo, fino all’ultimo, di far coincidere continuità e trasformazione, tradizione e innovazione. In alcuni aspetti e momenti prevalsero le prime caratteristiche, i vincoli e i limiti che gli venivano da una identità, dalla sua storia, dal suo tempo. Ma nella maggior parte dei casi brillò la sua capacità di guardare lontano, di produrre le accelerazioni che riteneva necessarie e che poi hanno permesso alla sinistra italiana di proseguire il cammino fino ad incontrare le diverse famiglie del riformismo italiano. E per questo il suo pensiero e il suo modo di intendere la politica sono, a quasi quarant’anni dalla sua morte, ancora vivi e pieni di significato.