Corriere della Sera, 5 maggio 2022
Trieste raccontata dalle statue
«Raccontano i mitologi», scriveva un secolo e mezzo fa Costantino Pescatori, ne La mitologia greca e romana, «che nacque Mercurio dotato d’ingegno acutissimo ed accortissimo, ma coll’istinto di valersene per ingannare gli altri. Non già che egli, come Dio, avesse bisogno di rubare, ma così per trastullo e per dimostrare la sua scaltrezza si divertiva a far delle burle agli Dei, involando ad essi quel che avevano di più caro e prezioso. E perciò dicono che Mercurio ancor fanciullo rubò le giovenche e gli strali ad Apollo, e poi il cinto a Venere, il tridente a Nettuno, la spada a Marte e perfino lo scettro a Giove». Fatto è che i triestini, nella scia dei poeti indulgenti col ladruncolo che «col suo ingegno e la sua accortezza s’era saputo cattivar l’affetto di tutti», lo scelsero come il dio giusto cui dedicare la città.
In buona compagnia, s’intende. Chiede infatti Paolo Possamai, tornato alla saggistica e all’antica passione per la storia dell’arte dopo aver diretto per una ventina d’anni vari quotidiani del gruppo L’Espresso, dal «Mattino di Padova» al «Piccolo» di Trieste: «Che cosa racconta il volto urbano di Trieste?» E risponde: «L’identità di una città bizzarra. Identità annunciata dai tetti da una folla sterminata di statue di Mercurio, Nettuno, Ulisse, Giasone, Venere, Vulcano, Minerva. Un concerto di miti che parlano di mare, traffici, avventurose fortune, che abbiamo disimparato a vedere, ma basta alzare lo sguardo per ritrovarli. Gli eroi della Grecia antica ci guardano, affacciati alla città e al golfo». Tutti pazzi per l’Olimpo.
Certo, ci sono statue più recenti. Come quelle in bronzo dedicate ai letterati. A Italo Svevo che ha in mano un libro, Gabriele D’Annunzio con un volume aperto sulle ginocchia mentre siede su una panca installata (fra contestazioni) nel centenario dell’impresa di Fiume, di James Joyce mentre passeggia in uno dei suoi luoghi preferiti a Ponte Rosso o Umberto Saba svillaneggiato dal furto del bastone su cui posava la mano (oggi sospesa nel nulla) e della pipa che aveva in bocca.
Come ricostruisce Possamai in Nettuno e Mercurio. Il volto di Trieste nell’800 tra miti e simboli, Marsilio editore, «la Trieste moderna è stata “inventata” da Maria Teresa d’Austria, che a metà Settecento ne volle fare il porto dell’Impero asburgico. Una storia tutta legata al mare, all’emporio e ai commerci con l’Oriente. Una storia rivendicata ogni dove sui palazzi dei mercanti e delle pubbliche istituzioni, ma anche sui teatri e sugli alberghi: le facciate sono ricoperte di bassorilievi, i tetti abitati da centinaia e centinaia di statue, i portoni istoriati, i soffitti affrescati sempre con dèi e miti che richiamano all’identità laica, civile, imprenditoriale della città. Una fitta trama di simboli, metafore, allegorie – dalla mitologia greca fino al taglio dell’istmo di Suez».
Cosa significò per «la città del vento» esposta alla bora essere scelta come porto franco e scalo prediletto dall’impero austro-ungarico? Bastano due dati della storica Marina Cattaruzza. Uno sviluppo crescente fino al boom della seconda metà dell’800, quando «la popolazione passò da 104.707 abitanti nel 1859 a 229.500 abitanti nel 1910». Tra i primi ad accorgersi della prodigiosa ascesa, ricorda l’economista Giulio Mellinato, docente alla Bicocca e autore di Leggere una città. La storia di Trieste scritta negli spazi di vita e lavoro, fu Karl Marx che sul «New York Daily Tribune» sostenne «come il vantaggio triestino consistesse nel “non avere un passato”, così da poter cogliere opportunisticamente tutte le occasioni di profitto disponibili. La sua classe commerciale (“commercianti e speculatori italiani, tedeschi, inglesi, francesi, greci, armeni, ebrei in variopinta miscela”) non [si] piegava sotto le tradizioni e coglieva tutte le opportunità, dalle tradizionali rotte dell’Impero ottomano al nuovo traffico di cereali dal porto di Odessa, mentre la Camera di Commercio stava già preparando il terreno» all’apertura del canale di Suez.
Vienna immaginava il «suo» porto per i mercati della Mitteleuropa. Ma progressivamente, spiega Mellinato, «Trieste assunse una funzione baricentrica fungendo da collegamento tra le reti commerciali centroeuropee, balcaniche e quelle mediterranee». Una città aperta. Che non voleva restare impigliata in fastidiosi conflitti commerciali, etnici o religiosi con potenziali concorrenti, mercanti, fornitori, armatori... Meglio volare alto. Rifacendosi a un passato glorioso, comune, lontano. Come l’antica Grecia. L’antica Roma.
Ed ecco che, scrive Possamai, «sui palazzi della ricca borghesia, e in primis del capostipite Carciotti e dell’emulo Revoltella, ma anche sulla Borsa e sul Tergesteo e sulle quinte architettoniche articolate attorno alla piazza-teatro intitolata all’Unità d’Italia, l’esibizione di statue dei Continenti, di Nettuno, di Mercurio, di Minerva e un’infinita serie di bassorilievi allegorici sempre richiamano al tema del mare e dei commerci, alla ricchezza e alla cultura che ne deriva e alla ricerca di un destino di benessere laicamente perseguito. Che è il seme della identità di Trieste, proclamata nella sua imago urbis». Per non dire di una «anomalia di segni e di significati assenti dal dialogo. Se la mitologia classica, attraverso un numero circoscritto di soggetti, rappresenta l’ambito tematico di riferimento, per converso gli emblemi della cristianità sono assolutamente minoritari e anzi rarissimi».
Tra questi «il fregio intitolato Trionfo della fede cristiana su quella pagana su casa Piller, eretta attorno al 1815 all’attuale civico 4 di piazza Goldoni; lo spiazzante San Giovanni Evangelista collocato nel timpano spezzato di casa Niderle in piazza della Borsa 2... E la “iconostasi” dei santi triestini sull’attico di Sant’Antonio Nuovo».
Il protagonista nel pantheon giuliano, insiste Possamai, è comunque Mercurio: «protettore dei commercianti e dei viaggiatori, ma pure dei ladri. Un dio astuto e un po’ malandrino, imbroglione, truffaldino, grande affabulatore. Insomma, il dio della comunicazione, perché presiede ai commerci, agli scambi, alla parola in genere». A Trieste, ovviamente, in coppia con Nettuno «e la sua schiera di tritoni, sirene, delfini, nereidi, cavalli. Incontriamo Mercurio e Nettuno ovunque camminando per strada nella città ottocentesca, nei fregi, sui portoni di legno delle abitazioni, nelle statue, nei parapetti in ferro dei balconi, negli androni e nei cortili dei palazzi...»
Le quinte giuste per una città così amata da Claudio Magris? Rileggiamolo sul «Corriere» di quarant’anni fa. Gonfio d’amore per gli «incantevoli frammenti del mondo, macchie rosse del Carso, il grande richiamo e abbandono del mare, la luce e i riverberi delle rive, l’ala del vento, il tavolo di una birreria dove ci si può allegramente infischiare del malinteso del mondo. Fra quelle pieghe (...) si gode un amabile piacere di vivere, e si ha la sensazione che tutto debba ancora incominciare, che la vita debba ancora venire. Il fascino del non-tempo triestino, del suo mosaico eterogeneo e sconnesso, è questa promessa sempre rimandata e differita, questo tramonto della vecchia Europa che attende sempre che venga la sua ora».