Corriere della Sera, 5 maggio 2022
Intervista a Carlo Calenda. dice che si faceva canne, che a scuola fu bocciato e che era un pessimo attore
La libertà che non libera era, in principio, quella che Carlo Calenda ha sperimentato da ragazzo, prendendosela di prepotenza e illudendosi di poter avere tutto. Ora, La libertà che non libera – Riscoprire il valore del limite è il titolo di un saggio politico, in uscita oggi per la Nave di Teseo. Un saggio che reclama il ritorno all’ethos e alla preminenza della comunità sull’individuo, ma che è anche un po’ la proiezione storica di un personale arco individuale che il fondatore di Azione racconta al Corriere da Strasburgo, dove ha portato tre dei suoi quattro figli a sentire il discorso di Mario Draghi all’europarlamento. Lui dice: «È un libro controverso per un liberale come me, perché teorizzo il limite del liberalismo per come l’abbiamo inteso: l’uomo alla ricerca di diritti illimitati ha finito per confondere i desideri coi diritti. Da qui, quelli che dicono: non voglio pagare per le armi ucraine; non mi rompete col Covid... La nostra idea di libertà è diventata: sto sul divano, compro su Amazon, m’intrattengo con social e tv. Ed è la classe dirigente che è così».
Lei come ha imparato il valore del limite?
«Ho una mamma valdese e la mia educazione è basata sul senso del limite, sul ricordarsi che a un diritto corrisponde un dovere. Tuttavia, proprio per questo, col senso del limite ho un problema: non usare toni eccessivi, non infiammarmi, non cedere all’egotismo è una ricerca continua. Infatti, il mio non è un libro bacchettone: l’ho scritto consapevole che darsi un limite è uno sforzo significativo».
Quando non ha retto lo sforzo?
«A 14 anni, ho completamente deragliato, ho cominciato a farmi le canne, a non andare a scuola, sono stato bocciato, poi ho avuto una figlia a 16. Ho fatto tutto quello che serviva per dire: non mi rompete. Frequentavo brutta gente, facevo a pugni, mi rompevano il naso, facevo politica in modo violento. Ma, nell’istante in cui è nata Taj, sono cambiato. Mamma mi ha cacciato di casa e sono andato a vivere da nonna. Con la bambina, ho fatto proprio il padre, non ho delegato. E, in un giorno, ho recuperato l’anno perso a scuola, mi sono messo a vendere polizze. Mi sono laureato lavorando».
Che cosa le fa pensare, adesso, che siamo pronti al cambiamento epocale di valori che auspica?
«La forza degli eventi storici, con la guerra e la crisi economica e sociale, determinerà la necessità che questo avvenga. Serviranno più collettività e l’accettazione di valori ordinatori della società superiori al desiderio impossibile della libertà individuale. Io ho fiducia perché negli uomini c’è sempre il desiderio di una ricerca di senso, che, per come la vedo io da laico, sta nella filosofia, nell’arte e nella passione civile, in quello che Simone Weil chiama “il destino eterno dell’uomo”».
Nella pratica, da dove si comincia?
«Dalla scuola, smettendola di trascurare il sapere non funzionale. Faccio una proposta: tutti i ragazzi italiani di qualunque condizione sociale devono fare il liceo. Gli studi professionali e tecnici devono essere rinviati a dopo. Prima, dobbiamo formare uomo e cittadino. In una società del benessere, fino a 18 anni, s’imparano arte, storia, musica, cultura, cose che daranno un vantaggio competitivo dopo e che, soprattutto, eviteranno la frustrazione che deriva dall’essere incanalati verso una professione che, tanto, cambierà e senza avere altro mondo che non stare sui social e comprare cavolate. Io, ai miei figli, ho vietato videogiochi e telefonini fino ai 14 anni, così che si abituassero, invece, a leggere libri».
Nel libro, descrive genitori che, per primi, si riconoscono solo diritti. Che propone? Di rispedirli a scuola?
«Purtroppo, i ragazzi andrebbero sottratti alle famiglie e messi a scuola anche al pomeriggio, portati a visitare i musei, i siti archeologici».
Quando scrive «oggi restano inevase due domande fondamentali: come vivere e perché vivere?», lei che risposte si dà?
«Vivo per lasciare una traccia che migliori il mio Paese. Mia madre mi ha sempre spronato a fare grandi cose. Per quanta fatica costi la politica, oggi sono un uomo molto più felice di quando guadagnavo un milione di euro lavorando meno. Lo sono perché ho trovato il mio posto».
Come e quando decise di abbandonare lo stipendio?
«Nel 2012, lavoravo a Napoli, andavo in barca a mangiare a Nerano. Lasciai quando fu creata Italia Futura e poi mi candidai con Scelta Civica. Ho fatto cinque anni da ministro senza essere parlamentare e ho speso tutti i risparmi, ma mia moglie Violante me lo dice sempre: sei più felice adesso. È una decisione che non ho rimpianto e neanche lei».
A San Valentino, su Instagram, sotto una foto con lei, ha scritto: «Nella mia vita, c’è un solo pilastro».
«Ci siamo conosciuti a un ballo di 18 anni e innamorati in una settimana. Avevo una figlia, non era facile. Violante è quadratissima e, soprattutto, non gliene frega di quello che faccio: se fossi presidente della Repubblica, non le importerebbe. Se “sfigheggio”, come si dice a Roma, tipo dico “hai visto quanto sono bravo”, dice: vai a comprare il pane. Ha su di me un effetto di sanità mentale. Per un politico, l’egotismo è una malattia professionale, il rischio è sentirsi attori».
Da figlio e nipote di registi, di Cristina e Luigi Comencini, attore rischiava di diventarlo.
«Recitai nello sceneggiato Cuore a dieci anni, ero un attore pessimo. Mi piacque il set solo perché passai con nonno tanti mesi ed ero totalmente innamorato di Giuliana De Sio, la maestrina dalla penna rossa».
Tornando a sua moglie: nel 2017, ha avuto leucemia e tumore al seno e, dopo, al Corriere, ha confessato che i primi due giorni non voleva accettare l’idea. Lei, invece, come reagì?
«Mi concentrai sull’organizzazione militare della crisi. Ero ministro, per cui i bambini venivano a studiare al ministero e tutte le sere andavo da lei in ospedale. Era come se avessi rimosso il rischio che le potesse accadere il peggio. Tant’è che il medico mi chiese: ma ha capito che rischia la vita? Risposi “sì, ma posso solo organizzarmi mentre voi la curate”. Dopo, quando Violante è stata bene, ho realizzato che la ferita era invece profonda. Poi, lei ha avuto una ricaduta, un trapianto di midollo. Ma, se la vede adesso, è più bella di prima. E ora è amministratore delegato della Komen, una Onlus per la prevenzione del tumore al seno: ha girato quello che le è accaduto di male in bene. Ha anche lei trovato il senso della vita».
Lei come pensa di cambiare un Paese con un partito al 5 per cento?
«Facendolo arrivare al 20, come ha fatto la destra, andando in giro per l’Italia e facendo capire che non sono una moneta falsa. Io non credo che le persone non vogliano migliorarsi o vogliano che i loro figli stiano dieci ore sui videogiochi, invece di avere cultura e prospettive».