Corriere della Sera, 5 maggio 2022
Mosca si veste di rosso
Ai ragazzi del pub irlandese hanno ordinato di togliere tutto quel verde dalla vetrina. Le lettere a caratteri cubitali del nome di discendenza joyciana, la sagoma scontornata di Bono degli U2, e già che ci siamo pure il quadrifoglio. Al massimo, lo possono verniciare di rosso: dev’essere questo il colore della capitale per la parata del 9 maggio.
Mosca, che fatica. Al mattino gli aerei militari sfrecciano nel cielo, riproducendo la formazione a Z, la lettera simbolo dell’Operazione militare speciale. Intanto, l’esercito occupa la città per le prove notturne, tagliandola in due. Ogni negozio ha ormai ricevuto il Kit da celebrazione, e sollecitato dai poliziotti moscoviti, si affretta a esporre manifesti e simboli che sembrano arrivare dall’epoca della Grande Vittoria Patriottica. «Era dai tempi di Breznev che non si vedevano così tante falci e martello», dice Mikhail, il proprietario del locale sulla Pushkinskaya, che per altro all’epoca della grande stagnazione degli anni Ottanta non era neppure nato.
Siamo nella zona dove all’inizio dell’Operazione militare speciale si andava per cercare i segni del dissenso, le proteste che dovevano diventare di massa, e sappiamo come è andata. Adesso l’esercito si occupa solo più di controllare che la statua di Majakovskij nell’omonima piazza sia pavesata con bandiere rosse bordate di giallo oro. Eppure, anche la madre di ogni 9 maggio, ancora più importante e solenne di quella del settantennale, ha le sue belle contraddizioni. Si svolgerà in 28 diverse città, e parteciperanno in tutto 65mila militari. Alla parata più importante, quella sulla piazza Rossa, sfileranno solo 129 mezzi rispetto ai 191 del 2021, quando già ci fu una edizione più ridotta per via del Covid. Marceranno diecimila uomini, compresi i cosacchi, ma l’anno prima ce n’erano duemila in più.
Non si tratta di propensione al risparmio, così sostiene il Cremlino, ma di un soprassalto di sobrietà dovuto al momento. L’Operazione militare speciale non è una guerra, vietato chiamarla così, ma Putin potrebbe dichiarare guerra dopo due mesi di combattimenti, cosa ben diversa dall’eventualità della mobilitazione generale esclusa con veemenza dal suo portavoce Dmitry Peskov. La stessa persona che lo scorso 23 febbraio aveva escluso sempre con veemenza l’ipotesi di una imminente invasione dell’Ucraina. Potrebbe essere invece una tappa intermedia, la formalizzazione del conflitto in corso, che consentirebbe l’uso di più uomini e finanze. Ne parlano tutti, persino le tv di Stato, il 9 maggio è diventato una data dal valore quasi messianico. Altro che la parata, i nastri rossi e le vecchie foto dei soldati dell’Armata Rossa che entrano a Berlino.
Quest’anno c’è un’inquietudine che non può sfuggire ai rabdomanti dell’opinione pubblica fedelissimi del Cremlino. Magari si tratterà soltanto di placarla dichiarando una piccola vittoria nel giorno della Grande Vittoria. Qualche segnale c’è già. Ieri pomeriggio il ministro della Difesa Serghey Shoigu ha provocato in molti una sensazione di già sentito. Davanti al suo Stato maggiore, ha dichiarato, in diretta su ogni canale possibile, che Mariupol è sotto controllo russo, a parte i «pochi residui nazisti» bloccati nella fabbrica Azovstal. Sono le stesse parole che aveva usato durante l’incontro con Putin dello scorso 21 aprile. Forse si insiste su Mariupol perché non c’è altro con cui fare festa. I siti bene informati di cose militari riferiscono che proprio quel giorno Shoigu avesse detto al presidente di non poter mantenere la promessa di una conquista delle regioni di Donetsk e Lugansk entro il 7 maggio.
Intanto, l’unica cosa certa è la differenza tra l’economia reale e quella percepita dal Cremlino. I ristoranti sono sempre più vuoti. Il rublo va in altalena, come i prezzi del cibo al supermercato. E i ragazzi del pub finto-irlandese hanno cominciato a chiudere presto la sera. Mosca è rossa da capo a piedi. Ma non sarà tutto oro l’armamentario che luccicherà in piazza Rossa.