il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2022
Ritratto al veleno di Gerhard Schröder
Al bel tempo che fu, Vladimir Putin offrì a due stelle dell’Europa politica le chiavi della slot machine che a ogni giro del giorno suona le tre campanelle di Gazprom che pompa la linfa negli ingranaggi produttivi d’Occidente e in cambio incassa stratosferici guadagni per la gloria dello Zar e dei suoi oligarchi: un miliardo di euro al giorno, tutti i giorni dell’anno.
Il primo era Romano Prodi, ex presidente del Consiglio italiano, e pure ex presidente della Commissione europea. L’altro era Gerhard Schröder, ex cancelliere tedesco che aveva appena lasciato le chiavi della Germania alla irresistibile ascesa di Angela Merkel.
Prodi, che ha sempre avuto un angelo custode dossettiano, declinò con un “Per carità, no grazie”. Mentre Schröder, in perfetta etica protestante, per nulla scalfita dalle paturnie socialdemocratiche sul conflitto d’interessi, chiese l’essenziale: “Quanto?”.
Era il 2005. Stava convolando a nozze con la sua quarta moglie, penultima di cinque, e il quanto avrebbe agevolato l’imminente trasloco nella nuova vita, a 61 anni, evviva gli sposi. Il quanto lo fece sorridere: 600 mila euro l’anno dalla Rosneft, altri 250 mila dal consorzio Nord Stream 2, due ingranaggi societari del gas russo, più spese, capricci e premi. Che comprendevano l’uso dei jet della compagnia, l’apparato di sicurezza, la foresteria all’87esimo piano del grattacielo di cristallo di Gazprom a San Pietroburgo, un ufficio ad Hannover. Il tutto senza intaccare il suo vitalizio da ex Cancelliere: 9 mila euro al mese di pensione, più una segreteria e lo staff.
L’ingaggio avvenne in modalità calciomercato, coerente con la passione di Schröder per il suo Borussia, squadrone che lo annoverava tra le tessere oro della tribuna vip. Neanche il tempo di sfilarsi la maglia di Cancelliere che già gli offrivano quella di presidente del Consiglio di sorveglianza del gasdotto che aveva raddoppiato durante i suoi 5 anni di governo, 1998-2005, vedi mai le coincidenze. A onor del vero, Schröder tentennò il tempo di una doccia e quello di ricevere sul proprio cellulare la telefonata del suo amico Vladimir che non aveva tanta voglia di scherzare: accetti o mi devo offendere?
Due settimane dopo, Schröder – come un qualunque senatore di Rignano – si era già accomodato al cospetto del sultano, servitore del colosso energetico russo che nei successivi 17 anni ha reso sempre più indispensabile all’economia tedesca, italiana, europea, assecondato da tutto l’establishment dell’era Merkel, fino a garantire il 55 per cento del fabbisogno energetico della locomotiva tedesca. Il che ha voluto dire gas illimitato e a buon prezzo, ma anche dipendenza illimitata, che non è mai un buon prezzo. Specialmente da quando le spallate della Russia sono diventate sempre più perentorie, prima ai confini della Georgia, anno 2008, poi a quelli della Crimea, cancellati con l’annessione, anno 2014. Per diventare – tralasciando gli avvelenamenti dei dissidenti – la valanga di acciaio del 24 febbraio scorso, quando ha varcato quelli dell’Ucraina con il fuoco e le fiamme dei carri armati, dei missili, le fosse comuni. Guerra canaglia come tutte le guerre.
Con l’Europa che, da un giorno all’altro, si è ritrovata a recitare due parti nella tragedia: armare la resistenza ucraina, in nome del diritto dei popoli, e insieme finanziare l’aggressione russa, in nome delle rispettive catene produttive.
Schröder ha provato a fare il pesce in barile, “questa guerra è un errore”, ma aggiungendo che anche i cancellieri precedenti, Willie Brandt e Helmut Schmidt avevano varato gasdotti che passavano persino nel sottosuolo della Guerra fredda. Lui si è limitato a incrementarli per garantire i fatturati della manifattura tedesca e i pasti caldi all’intera Germania.
Dedicandogli una doppia pagina, il New York Times ha scritto che Schröder sta diventando un paria in patria. Il Parlamento tedesco vorrebbe revocargli il vitalizio. Mentre lo staff si è revocato da solo con dimissioni a catena. Ma se i suoi ex amici pensano di turbarlo con gli addii e gli attacchi, non hanno fatto i conti con la sua biografia di ferro. “Non faccio mea culpa. Non fa per me”.
Come il suo amico Putin, anche Gerhard viene dalla strada. Nasce nel 1944 in una famiglia povera della Bassa Sassonia, genitori segnalati come “elementi antisociali”. La madre analfabeta fa la donna delle pulizie. Il padre, soldato della Wermachtmuore in battaglia in Transilvania senza avere mai visto l’ultimo nato dei suoi cinque figli battezzato Gerhard Fritz Kurt.
L’infanzia è una battaglia che combatte per strada. Lo raddrizzano il lavoro in un ferramenta e la scuola serale. Lo salva la politica. E poi gli studi di Giurisprudenza. Diventa segretario dei Giovani socialisti a vent’anni, avvocato a 27, deputato al Bundestag a 35. Si trasferisce a Hannover, poi a Berlino. Scala il partito. Nel 1998 vince le elezioni con i Verdi, battendo Helmut Kohl. Diventa Cancelliere promettendo lotta alla disoccupazione, protezione sociale, investimenti nelle imprese. Nei suoi cinque anni di governo si oppone agli interventi armati degli Usa in Medio Oriente e nel 2002 si sfila dalla “Coalizione dei volenterosi” voluta da Bush figlio che decide di invadere l’Iraq, spianando con fuoco e fiamme le città e i villaggi, come in ogni guerra canaglia, anche se dai divani occidentali non si vedevano i morti e le macerie.
Detestato da sempre dagli americani, Schröder è stato l’artefice del riavvicinamento della Germania con la Francia e specialmente con la Russia del suo amico Putin, “un impeccabile democratico”.
Oltre alla politica, ama le donne e il lusso. Veste italiano. Beve francese. Fuma cubano. Gioca con il suo passato da duro e per il suo congedo dal governo ha scelto My Way di Frank Sinatra come colonna sonora della festa.
Oggi che i tempi si sono fatti cupi, la velocità con cui si è messo al servizio di Putin fa crescere a tanti il sospetto che lo fosse anche prima. Ogni giorno riceve attacchi da stampa e tv. Il Borussia gli ha revocato la tessera oro. Persino il suo partito non vede l’ora di cancellare la sua ombra lunga. Che minaccia non tanto il passato, quanto il presente, visto che è stato proprio Olaf Scholz, l’attuale Cancelliere, il suo migliore allievo. E fino a ieri, il suo pupillo, che oggi vorrebbe voltargli le spalle, ma senza spegnere il gas.