la Repubblica, 4 maggio 2022
Intervista a John Freeman
Terzo di una trilogia di libri dedicati alle trasformazioni del mondo, Racconti di due Americhe – Storie di disuguaglianze di una nazione divisa (Mondadori, traduzione di Federica Aceto) racconta con una polifonia di voci e forme cosa stanno diventando gli Stati Uniti, e quindi di riflesso gran parte del mondo, sotto la spinta di tensioni sociali, etiche e razziali ormai difficilmente inquadrabili.
Trentasei contributi che mostrano un’America straniata, spezzata, «poco empatica», un Paese pericolosamente simile al nostro con «strade dissestate, scuole sovraffollate, poliziotti con i nervi a fior di pelle, senzatetto a due passi dalle zone commerciali con negozi sempre meno alla portata di tutte le tasche», con un quarto della popolazione prossimo alla miseria e una gentrificazione che spolpa le grandi città. Le disuguaglianze stanno diventando intollerabili ed è sempre meno possibile ribaltare la propria condizione; il sogno americano è rimasto solo un sogno. Il curatore, John Freeman, ha accostato storie di autori come Joyce Carol Oates, Rebecca Solnit o Karen Russell a quelle di emergenti di mirabile forza espressiva per spalancare al lettore un «quadro di riferimento completamente nuovo» e raccontare l’America attraverso la letteratura – la letteratura come bussola per la salvezza. Tra le pagine risuona un monito: «Come facciamo a vivere tranquilli quando sappiamo che altre persone non possono godere dei nostri stessi agi?». C’è solo la forza della solidarietà – quella genuina che parte dal basso e diventa un’onda inarrestabile –, e la forza dell’esempio. Ne parliamo su Zoom con Freeman, ora a Los Angeles in una casa appena presa in affitto a ridosso dellaspiaggia.
Pensa che la letteratura possa essere un buon modo per mettere sul piatto problemi così complicati?
«Il legame tra letteratura, vita reale e giustizia sociale è decisivo. Una delle più grandi barriere all’uguaglianza qui in America è la fallace concezione dell’eccezione. Ragionano così: se qualcuno è in grado di diventare Ceo da una condizione di povertà allora il sistema americano funziona. La verità è che se sei povero è molto probabile che resterai povero.
L’uguaglianza resta uno dei più grandi obiettivi da perseguire, e questo libro è un tentativo di rendere più salda la connessione tra chi non ha problemi e chi invece li deve affrontare ogni giorno. Un’antologia a più voci mi sembra il modo migliore per farlo. Ho voluto dare questa struttura sinfonica proprio per uscire dall’idea di qualcuno contro qualcun altro e per concentrarci sul noi».
Dal libro emerge un’America lavorativamente precaria.
«Alla politica non stanno a cuore ilavoratori. Perché non si considerano i parametri giusti per misurare la qualità della vita? La maggior parte dei lavoratori poveri non hanno aiuti dal governo. Perché non ci si chiede in quanti sono costretti a fare due o più lavori per mettere insieme uno stipendio decente? O quanti vanno in bancarotta per colpa del sistema sanitario? Se si mettono insieme questi dati si ha il vero volto della precarietà, e il libro ne è una testimonianza».
Qual è il ruolo della formazione in tutto questo?
«Credo che la scuola abbia un ruolo cruciale. Uno dei problemi dell’educazione negli Stati Uniti èl’uguaglianza al momento dell’accesso. Tutti vogliono ricevere una formazione di qualità, ma conta dove vivi. Le scuole sono finanziate dalle tasse. La destra sta foraggiando una serie di analisi critiche che sostengono la privatizzazione della scuola. Volevano addirittura privatizzare quelle pubbliche, nello stesso modo in cui Donald Rumsfeld voleva privatizzare l’esercito».
Nel libro ci sono tantissimi casi di solidarietà contagiosa. Qual è la situazione ora?
«L’evento più importante di questi ultimi anni è stata la protesta Black Lives Matter dopo l’uccisione di George Floyd. In tantissimi si sonofatti avanti, persone di tutte le estrazioni sociali. Una solidarietà così generalizzata è difficile da fermare perché non si può isolare. Allo stesso tempo ci sono tante forze che operano contro. Internet è un esempio: da una parte sembra un sistema di condivisione aperto a tutti, dall’altra non fa che concentrare gruppi di persone verso certi mercati. Il rischio è finire bombardati da pubblicità e informazioni (comprese le fake news) che quel gruppo condivide».
Qual è l’influenza della cancel culture e del politically correct nella società americana e nel suo lavoro?
«Sono due modi estremi e fallaci per interagire con problemi non facilmente risolvibili. La società americana ne è pervasa ma non credo siano il modo corretto per affrontare le cose. Mi sembrano piuttosto l’espressione di una frustrazione. Se vuoi cancellare qualcosa vuol dire che dà fastidio, che non vuoi un punto di vista ampio e articolato. Il politically correct è solo un sistema per ridistribuire il potere culturale; non è animato da meritocrazia o da un vero spirito di uguaglianza. Sono strumenti tutt’altro che definitivi, specialmente se applicati ai libri, perché lo scopo dei libri è allargare delle vedute, dialogare con la complessità».
Parliamo di ricerca del talento.
Per anni lei ha curato Granta, mentre ora si occupa di Freeman’s.
Costruisce antologie. Una volta ha detto che creare una compilation è simile al lavoro che si faceva con i nastri magnetici.
«È puro istinto, come d’altronde era con le cassette. Si deve sempre lasciare spazio per qualcosa di inaspettato, che possa sorprendere.
Costruire un’antologia di scrittori non è solo aggiungere un pezzo all’altro e dare un ordine: si deve conferire un’unità che sia superiore alla somma delle parti; bisogna fare in modo che le voci più autorevoli accompagnino quelle emergenti».
Com’è cambiata questa ricerca nel corso degli anni?
«È diversa a seconda del contesto. Mi sono sempre imposto di non avere un solo lavoro e di non lavorare mai a un solo progetto. In questo momento sto aiutando l’organizzazione di un festival letterario, sto lavorando come editor a tre riviste, sto preparando la mia Freeman’s e sto editando libri per Knopf. Questi lavori si alimentano a vicenda».
Anni fa lei si è battuto per lo spazio riservato alle recensioni.
«Stavamo combattendo una battaglia già persa. Internet stava cannibalizzando i giornali. Molti contenuti finivano contemporaneamente online e i giornali non riuscivano più a fare i soldi di prima. Sempre meno libri venivano recensiti, e con minore varietà e possibilità per i piccoli marchi. Se la nostra vita è dettata dalla tecnologia, confonderemo sempre di più i like con l’apprezzamento reale e saremo sempre meno capaci di interpretare la complessità. C’è una parte di me che mi fa sentire sempre un californiano, cioè un ottimista per natura. Sono sempre convinto che voci uniche possano farsi largo e parlare ai lettori pure in un ambiente degradato come questo. A darmi speranza sono scrittori come Ocean Vuong, che è una star su Instagram. Il suo libro è balzato subito al terzo posto nella classifica delNew York Times».