La Stampa, 4 maggio 2022
I 90 anni di Pippo
In questi giorni Pippo, il miglior amico di Topolino, festeggia 90 anni. Devo ammettere che da piccolo il dinoccolato cane antropomorfo non ha mai catturato davvero la mia attenzione, sebbene lo stesso valga per tutti i personaggi maschili Disney, a cui sistematicamente preferivo le fidanzate, mogli, amiche, nemiche. Perseverando nel disinteresse avrei però perso l’occasione di riconoscere nel goffo amico di Mickey Mouse un archetipo prezioso e a tratti pure struggente, che invita a rivedere le nostre idee su ciò che riteniamo maldestro, “sfigato”.
Battezzato in origine Dippy Dawg, ovvero “cane pazzo”, e poi Goofy – letteralmente scemo, ridicolo – Pippo è la controparte impacciata dell’efficiente e razionale Topolino. Nell’universo Disney gli è stato affidato il ruolo dell’idiota simpatico, dello scemo del villaggio: le sue stesse fattezze anticipano lo sguardo che gli è destinato. Spilungone dai piedi enormi (porta il 52 bislungo) e il sorriso scombussolato dal diastema, erompe di continuo in una risata rauca e vagamente equina, tutto fuorché raffinata. Nel mondo reale, il personaggio è nato a maggio ma a Topolinia il suo compleanno cade il 29 febbraio, dunque è Pesci, simbolo zodiacale di cui riassume in effetti molti valori. Sbadato, disordinato, irrazionale: Pippo è un tipo nettuniano, è l’allocco che con il suo agire assurdo e fin troppo spontaneo rivela possibilità altre dell’esistenza. Quando nel 1932 venne creato, Dippy Dawg era un contadino dall’aspetto trasandato, un anziano agricoltore delle montagne americane piuttosto malconcio. Nel corso degli anni la sua immagine si è ripulita ma è rimasta nettuniana: maglione a collo alto, gilet e berretto sformato, Pippo si porta appresso un certo non so che di rattoppato, da creatura dei margini. Freak, mezzo barbone e forse, viene da immaginare, poeta segreto: a guardarlo bene ha tutti i contrassegni dell’irregolare, di quello che si aggira, a suo modo, lì dove le cose iniziano o finiscono. È vedovo – la moglie è morta in un incidente d’auto mai mostrato sullo schermo – e ha un figlio adolescente con cui vive in una casa stipata di oggetti, dato che tende all’accumulazione compulsiva. Ama il disordine e rifugge dall’ordine, i suoi ragionamenti sono strampalati ma a volte conducono a soluzioni sorprendenti, portando alla luce piste che gli altri non vedono. Calmo e paziente, Pippo non conosce la rabbia: ha in sé quella che qualche frequentatore di mistica definirebbe forse l’apparente idiozia dei santi.
Si dice che «sta nel suo mondo»: con il suo pensiero laterale in effetti sembra invitarci a non aver paura di scoprire, nel rischio del ridicolo, un punto di vista diverso. Pippo parla del nostro idiota interiore, di quel punto tenero all’interno di ognuno, insopprimibilmente legato all’infanzia, alla paura dell’onnipotenza dello sguardo degli altri. Alla paura di macchiarci, inciampare, balbettare, fallire. Di fronte a standard e criteri di perfezione più o meno irraggiungibili, l’archetipo dello sfigato felice, a cui Pippo offre un’incarnazione, spalanca i punti di tenuta minima del cuore. Punti che non passano di moda, ma che al variare delle epoche trovano nuove declinazioni: oggi nascondiamo il numero di like su Instagram se li riteniamo troppo bassi, rimuoviamo i tag dalle foto in cui abbiamo la faccia da scemi, nascondiamo l’accesso da Whatsapp per assecondare un unico, enorme monito non scritto: non farti cogliere in fallo, non mostrarti inadeguato, storto, incapace. Salvati dal ridicolo. Nonostante a volte si dica il contrario, continuiamo a essere pieni di regole e microregole: di prossemica, movimento, uso del corpo. Regole su com’è meglio essere e stare insieme, offrirsi alla vista altrui. Pippo, vera figura della maldestrezza, rappresenta invece la possibilità che esista vita degna e persino felice al di fuori dei parametri totalitari del meglio, che esistano spazi per sperimentarsi al di là delle consuetudini e dell’efficienza.
La goffaggine è spesso il risultato di uno scontro tra spontaneità e aspettative: essere goffo significa solcare la scena del mondo con uno stile proprio, e non con quello che compiace i modelli vigenti. Pippo ci ricorda così che nel dire «quello è uno sfigato» – e tralasciamo gli insulti abilisti – spesso stiamo soltanto mettendo a distanza l’inquietudine. Ci stiamo difendendo da un margine temuto, dalla possibilità che un altro modo sia possibile, che la mancanza di norma sia percorribile e non pericolosa, che la deviazione non conduca per forza a un baratro ma solamente a un insieme di sentieri sottratti alla vista dei più, misteriosi ma anche parecchio divertenti. La paura del goffo nasconde forse sempre la possibilità, abissale, della libertà: quello spazio indefinito in cui l’esistenza non è già informata, calata in uno schema, in cui il mondo può essere abitato insieme ridendo di sé e con gli altri, concedendosi la possibilità di essere nient’altro che prove e prove continue, manovre provvisorie e barcollanti in vista di non sappiamo che.