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 2022  maggio 04 Mercoledì calendario

Come si scappa delle guerre di Putin

«Cosa porterai con te se non tornerai mai più a casa?» Inizia con queste parole la canzone di Manizhi «City of the Sun», e nel video scorrono le immagini del Tagikistan durante la guerra civile che ha travolto il Paese. Il leitmotiv del testo è la domanda su come ci si sente se si deve abbandonare la propria casa a causa di eventi che non ti aspettavi e che non dipendevano da te. «Novaya» ha parlato con due profughi: in momenti diversi hanno lasciato la loro patria a causa della guerra. Darina dall’Ucraina e Salima dalla Cecenia raccontano cosa hanno portato con sé dalle case in cui non torneranno più e cosa hanno lasciato lì. «Milioni di ucraini, come me, sentiranno di non avere più una casa».
Salima ha dovuto lasciare la sua città natale, Grozny, nell’aprile del 1995, al culmine della prima guerra cecena. All’inizio della guerra aveva 20 anni, aveva studiato all’Università statale cecena come ostetrica-ginecologa. Parla della sua casa con amore, ricorda nei minimi dettagli com’era: i cespugli di acacia e lillà nel cortile, il colore della panchina che stava sotto di loro, il suono con cui si apriva il cancello verde. «È così strano: vivo in un posto diverso da quasi 27 anni, ho dovuto cambiare più volte il mio luogo di residenza e non ho sentito nessuno di questi luoghi come casa. Non riesco a ricordarne nessuno in modo così dettagliato come la mia casa a Grozny», dice. Salima è la maggiore di cinque figli, all’inizio della guerra era minorenne, e i suoi genitori non avevano intenzione di lasciare la loro repubblica né di andare da nessuna parte. Non hanno fatto progetti fino a che non è morto il padre. «Papà un giorno è andato dai nostri vicini per aiutarli a riparare il tetto, che era stato colpito da una granata. È caduto un altro proiettile, e ha colpito di nuovo quel tetto... ero con i miei parenti quel giorno, e quando me ne hanno parlato, non ci credevo. Pensavo fosse uno scherzo stupido. Ma come è possibile? Un uomo va a riparare un tetto che è stato colpito da un proiettile, ed esattamente in quel momento il proiettile lo colpisce di nuovo…». Salima inizia a piangere, parlandone. La decisione di partire l’hanno presa lei e sua madre, l’unica possibilità era quella di raggiungere dei parenti che vivevano in Inguscezia. La famiglia di Salima ha iniziato a raccogliere le sue cose il settimo giorno dopo la morte del padre. «Era molto difficile... La casa che avevamo costruito con tanto amore; la casa dove i nostri nonni, sopravvissuti alla deportazione del 1944, si sentivano finalmente al sicuro; la casa in cui tutto ricordava papà, doveva essere lasciata in fretta. Non sapevo se sarei tornata o no. Ma ricordo molto bene a cosa stavo pensando: diavolo, a maggio sarebbe sbocciato il lillà, ma io non lo vedrò», ricorda.
Salima conserva ancora le cose che ha portato con sé da Grozny: lo specchietto di sua nonna, un vestito di spugna, l’abito da sposa di sua madre e il coniglio di peluche della sorella più piccola. «La mamma ha detto: “Salima, prendi la cosa più importante”. Lei, come i nostri antenati, faceva dei fagotti con le lenzuola, dove metteva farina, zucchero, cereali, vestiti. Ero stupida e avevo 20 anni, quindi ho pensato che avrei dovuto prendere dei cimeli, mentre mia madre si occupava delle cose importanti, da adulta responsabile. Ho preso il taccuino di mio padre, l’abito da sposa di mia madre, lo specchio di mia nonna... Era uno strano “set da rifugiato”. Ma ora mia madre mi ringrazia per questo. Vive in Germania, le ho dato tutte queste cose, sono l’unico collegamento con la nostra vita passata, buona e spensierata», ride Salima.
Pochi mesi dopo la loro partenza, la casa di Salima è stata bombardata e rasa al suolo, ha detto. Non hanno più fatto ritorno in patria: prima a causa delle continue ostilità, poi a causa del disaccordo con l’attuale dirigenza della repubblica. «Una volta ho chiesto ai miei conoscenti ceceni di camminare lungo la nostra strada e di scattare delle foto per me, ma è stata una cattiva idea», dice Salima. «Non riconosco niente, non è lì che sono nata. Ci sono case pompose, non gentili e confortevoli come una volta. Mi sono abituata da poco all’idea che quella non sarà più la mia casa. E mi fa male sapere che gli ucraini sono esattamente nella stessa situazione. Quando guardo i condomini distrutti a Mariupol, i miei pensieri corrono immediatamente alla mia città, uguale. Tutti questi milioni di persone, a quanto pare, proveranno, come me, per tutta la vita, il sentimento di non avere mai più una casa».
Darina Yarosh, 25 anni, viene dall’insediamento urbano ucraino di Vorzel, che si trova proprio vicino Bucha. Nei primi giorni di guerra, le battaglie per l’aeroporto di Gostomel avevano colpito i piccoli centri adiacenti: Bucha, Vorzel, Irpin. La famiglia di Darina ha sentito esplodere proiettili e ha visto edifici in fiamme già dal primo giorno. «Tutto è iniziato subito – ricorda la ragazza -. Il primo giorno, mi sono svegliata all’alba a causa di una specie di forte scuotimento, anche le finestre della casa tremavano. All’inizio non capivo cosa fosse successo, mi sono alzata dal letto, ho iniziato a fare le solite cose, in genere mi alzo alle 4 del mattino. Un’ora e mezza dopo, mia madre è entrata nella mia stanza e mi ha detto di ritirare i documenti, per ogni evenienza, perché la guerra era iniziata». Darina non ricorda esattamente cosa abbia provato in quel momento. Mentre lei cercava i documenti, Internet nel villaggio è stato spento, cosa che li ha fatti sentire tagliati fuori dal mondo intero: era impossibile ottenere informazioni su ciò che stava accadendo. Il primo giorno, è andata al grande supermercato più vicino a Bucha e in quel momento gli aerei militari hanno iniziato a sorvolare la casa, le esplosioni di Gostomel non si sono fermate, era chiaro che l’aeroporto stesse bruciando.
Il secondo giorno, l’elettricità e l’acqua sono state spente. «Senza acqua sarebbe stato molto difficile, siamo stati fortunati che c’era un pozzo nel cortile, ci ha letteralmente salvati», dice Darina. La ragazza non è più andata a Bucha, perché sono apparse informazioni sullo sbarco delle truppe russe nel villaggio di Kicheevo, che si trova a dieci minuti di auto dalla casa di Darina. I giorni successivi tutta la sua famiglia li ha trascorsi in una cantina non riscaldata e, al settimo giorno di guerra, i carri armati russi si stavano già muovendo lungo la loro strada. Quando è diventato più calmo, ha deciso di andare a piedi a un villaggio vicino, dove un parente avrebbe dovuto darle un caricabatterie per il suo telefono. Lungo la strada, Darina si è imbattuta in soldati russi. «All’inizio ho visto un uomo con le mani alzate, non ho capito subito che cosa stesse succedendo, ma poi ho notato un altro soldato poco distante da lui. Pensavo fossero nostri, perché avevano la nostra uniforme, ho anche alzato le mani, ci hanno tenuti sotto tiro per circa 10 minuti, i soldati si sono avvicinati, ci hanno perquisito, erano giovanissimi. Poi ci hanno portati dal loro caposquadra, che era seduto nella cantina di una delle case. Nello stesso posto, a quanto pare, erano seduti tutti gli abitanti del villaggio di Uchkhoz. Ero vicina a una donna, che mi aveva detto che erano soldati russi. È stato allora che mi è preso il panico: ho iniziato a piangere, pensavo a come dire a mia madre che mi sembrava di essere in “cattività russa”. Il caposquadra mi ha ordinato di non piangere, perché stavo dando loro sui nervi, mi ha messo su una sedia accanto a lui. Per calmarmi, i soldati mi hanno portato una bottiglia da due litri di Sprite e mi hanno detto di bere dieci sorsi. Ho pensato: “E se non bevo dieci sorsi, mi ucciderete?” Erano completamente armati, tutti molto sporchi e molto giovani. I soldati hanno discusso tra loro di cosa avrebbero fatto quando sarebbero arrivate le truppe ucraine. Hanno discusso se si sarebbero arresi immediatamente o se avrebbero negoziato. Erano tutti molto spaventati, perché era un distaccamento di ragazzi molto giovani. Dopo dieci minuti mi è stato detto di alzarmi e andarmene con l’uomo con cui ero venuta. Ci hanno lasciato andare, l’uomo ha chiesto al soldato di portarci alla sua macchina in modo che gli altri soldati non pensassero che stessimo scappando. Siamo stati guidati da un giovane soldato di Tula, che ha detto che non voleva affatto combattere e che non sapeva dove lo stavano portando. Ci ha chiesto di non essere arrabbiati con lui. Mi sembrava di essere in un film con una strana sceneggiatura e attori che non sanno recitare».
Dopo che il 7 marzo una granata ha colpito il tetto della casa, la famiglia di Darina ha deciso che non era più possibile rimanere a Vorzel. La vicina ha accettato di portarli fuori dal villaggio, ma ha detto che c’erano solo tre posti in macchina: per Darina, sua madre e il fratello minore, il suo patrigno sarebbe dovuto rimanere a casa. «Ho avuto una specie di crisi isterica, non volevo fare niente, ho solo urlato che non volevo andare da nessuna parte e avrei preferito morire qui, a casa mia», mentre racconta Darina inizia a piangere. «Mi stavo dirigendo verso il buio più completo, e ho pensato di prendere qualcosa dalla casa in cui non posso più tornare. Ho preso due dei miei maglioni di cashmere preferiti che proprio non potevo lasciare, una giacca, due magliette, jeans, scarpe da ginnastica e un telefono». Ecco tutto ciò che Darina ha portato dalla sua vita tranquilla, prebellica. Il giorno della partenza, un altro vicino si è detto pronto a portarli fuori con il suo minibus, dove potevano stare tutti. Il pericolo principale, secondo la ragazza, era che veicoli più o meno grandi venissero colpiti indiscriminatamente. Altre due auto avevano lasciato Vorzel con loro, ma una era rimasta bloccata in un campo dove in quel momento si trovava un carro armato russo. «Abbiamo provato a tirare fuori la macchina e i russi ci hanno salutato, “va tutto bene – ci hanno detto – non spareremo”. Era impossibile tirare fuori la macchina, perché non c’era un rimorchio, l’autista ha chiesto un rimorchio ai russi e loro ce lo hanno dato, ma non è servito. Allora i russi hanno detto: “Tiriamola su con il carro armato”. Hanno agganciato un rimorchio al carro armato e hanno tirato fuori l’auto», ha detto la ragazza. Attraverso quattro posti di blocco russi, dove venivano perquisiti ogni volta, sono riusciti ad arrivare a Kiev. Il giorno successivo, Darina ha saputo dai suoi vicini che la sua casa era stata completamente distrutta da diversi proiettili: «Se restavamo ancora un po’ saremmo morti... Riuscite a immaginarlo? Io no».
A Kiev, sua madre e suo fratello hanno potuto prendere un treno per la Lituania, ma la ragazza ha rifiutato di lasciare il Paese senza il suo patrigno ed è rimasta con lui. Dopo che i soldati russi hanno iniziato a cedere posizioni nella regione di Kiev, Darina ha iniziato a raccogliere aiuti umanitari per portarli nella sua terra natale, come dice lei. Più volte, lei e il suo patrigno, sono riusciti a portare cibo agli anziani, che hanno trascorso un mese nei territori occupati senza acqua, luce e gas. Alla domanda su come vede il futuro, la ragazza non può rispondere: «Ho un esaurimento nervoso e ho bisogno di camminare costantemente, non riesco a muovermi abbastanza, perché il panico e l’ansia si sono impossessati di me. Da Vorzel andavo sempre a piedi a Bucha, e a passeggio nelle mie amate foreste, ma non posso più farlo... Ora sono solo mentalmente depressa, piango costantemente quando con il pensiero ritorno a casa mia. Cerco di non pensare al futuro. Cerco di non pensare, perché anche quando tutto sarà finito, semplicemente non avremo nessun posto dove tornare, nessun posto dove vivere. Cosa fare? Mi sento come se fossi in bilico su un abisso»