il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2022
Il giornalista italiano che intervistò Hitler
Nell’Italia di oggi, dove un’intervista al ministro degli Esteri di Putin trasmessa da una televisione privata finisce sul tavolo del Comitato parlamentare per la Sicurezza della Repubblica (Copasir) e induce il segretario del Partito democratico a parlare di “onta per l’Italia”, sarebbe possibile intervistare non Serghei Lavrov, ma Adolf Hitler, il führer del Terzo Reich?
Non cito a caso Hitler e lo faccio, invece, per due motivi singolarmente legati tra loro ed entrambi fondamentali per capire e decidere se la libertà d’informazione possa essere limitata nel nome di una sorta di “indice degli intervistabili proibiti”, fissato e circoscritto dal potere politico.
Dico Hitler, perché proprio l’evocazione del führer da parte di Lavrov, per un’affermazione ignobile e orrenda (“I maggiori antisemiti sono proprio gli ebrei e anche Hitler, come Zelensky, era ebreo”), sta determinando in queste ore una reazione illiberale: non sarebbe infatti da condannare (e da confutare, questa semmai la mancanza giornalisticamente grave di quella trasmissione) solo ciò che Lavrov sostiene, ma il fatto stesso che lo si sia intervistato. Come se fare i giornalisti, in una guerra, dovesse per forza trasformarsi in un’informazione combattente sino all’autocensura assoluta: tu sei il “nemico”, anche se sei uno dei rappresentanti istituzionali di uno Stato, e dunque non puoi essere intervistato.
Ma proprio Hitler, il dittatore assoluto evocato dal ministro degli Esteri russo su Rete4, c’entra anche con la questione se sia o no fare giornalismo intervistare il “male” e riportarne le parole e il pensiero.
Infatti accadde: in un’Italia dove governava già Benito Mussolini, dove non c’era il Copasir, ma stava per arrivare l’Ovra (Opera Volontaria di Repressione Antifascista) e dove molti degli antichi predecessori di Enrico Letta stavano per essere uccisi, incarcerati o costretti all’esilio. Correva l’anno 1923 e, nella redazione di un giornale di Monaco di Baviera vicino alle “camicie brune” (“Una banda di esaltati: facce di nevropatici e di cocainomani che mi ricordavano un po’ i cechisti di Mosca”), un giornalista italiano riuscì a parlare con il fondatore del nazionalsocialismo poco prima del “putsch della birreria” dapprima fallito, ma che poi spianò la sua ascesa al potere.
Quel giornalista si chiamava Giulio De Benedetti, lavorava alla Gazzetta del Popolo, era ebreo ed aveva già intervistato Lev Trotsky e Nikolai Bucharin: costretto a lasciare il lavoro dopo le leggi razziali, fuggì in Svizzera. Rientrato in Italia dopo la Liberazione, De Benedetti sarebbe poi diventato il direttore della Stampa, guidandola per 20 anni e trasformandola nel più innovativo quotidiano del dopoguerra.
In quel giorno del 1923, però, sottovalutò Hitler (“Non mi pare un dittatore troppo pericoloso”), mentre l’altro (“Un uomo che può parlare anche tre o quattro ore di seguito senza stancarsi, con una voce che pare una mitragliatrice”) non capì che stava discutendo con un ebreo. Uno di quelli sui quali, come De Benedetti riportò fedelmente (la precisione fu uno dei tratti della sua direzione alla Stampa e il tormento implacabile per i suoi redattori più disattenti), Hitler aveva le idee già molto chiare: “Lotta senza quartiere ai socialisti e agli ebrei… Noi andiamo diritti per la nostra strada. Siamo convinti che non si giungerà alla liberazione del popolo tedesco se prima non si distrugge il socialismo e l’idea semita. Come si fa a costruire un edificio se non si pongono prima le basi? Ora le basi della nostra liberazione sono la compattezza nazionale, la purezza della razza, l’abolizione del regime democratico…”.
Un documento, quell’intervista, straordinario e assieme terribile ancora 99 anni dopo. Nessuno, neppure nell’Italia già fascista, provò a censurarla, a biasimarla, a ribaltarla, a usarla contro il suo stesso autore. E per fortuna.