Linkiesta, 3 maggio 2022
Ma dopo le Grandi Dimissioni, come lo pagate l’affitto?
La prima grande verità della mia vita adulta me la disse un amico quando avevo più o meno venticinque anni, ero al mio terzo lavoro, e nessuno di quelli che frequentavo la sera lavorava di giorno. Chiesi come campassero tutti loro, gente che ci metteva dieci anni a procurarsi lauree utilissime tipo «discipline degli spettacoli». L’amico mi disse: in Italia l’affitto lo paghi solo te.
La seconda grande verità della mia vita adulta parimenti mi escludeva, e me la disse il mio capo quando avevo trent’anni, e mi lamentavo del fatto che non si sapesse mai quando sarebbero state pagate le fatture (oggi si chiamerebbe «precariato», all’epoca la mancanza d’un framing semantico limitava le lagne dei liberi professionisti). Il capo mi disse qualcosa tipo: se non arrivano questi soldi ne arriveranno altri, i soldi girano.
Il capo e l’amico avevano molte cose in comune: case di proprietà, soldi di famiglia, mai avuto il problema di come pagare l’affitto del mese dopo. Le case di proprietà sono plurali perché a non pochi di loro i genitori avevano fatto dono d’un secondo appartamento, dal quale ricavare il proprio reddito affittandolo. Se ricevi soldi senza fare niente tutti i mesi, perché dovresti metterci meno di dieci anni a laurearti in antropologia?
(Naturalmente il fuoricorsismo endemico ha a che vedere anche col fatto che l’università italiana la paga la fiscalità generale e non il somaro con velleità accademiche. Ci sono migliaia di elementi che fanno capire che l’umanità è scema e l’istruzione obbligatoria è un fallimento, ma il mio preferito è che, se scrivi una cosa del genere su un social, ti arrivano risposte indignate «io l’università me la sono pagata» di gente convinta che le poche centinaia di euro che paga ogni anno alla voce «tasse universitarie» corrispondano davvero al costo di produrre somari con certificato di laurea).
Penso tantissimo al mio amico (che intanto è diventato classe dirigente d’un certo livello, mentre io son rimasta la solita cialtrona) e al mio ex capo in questi mesi in cui un giorno sì e uno no qualcuno scrive delle Grandi Dimissioni Collettive. La gente ha capito che non può lavorare così tanto e godersi la vita così poco. Le madri si licenziano perché non c’è abbastanza stato sociale per i loro figli. Bisogna cambiare prospettiva.
Ieri, giuro, mi è comparso su Instagram uno che diceva che bisogna arrivare a lavorare quattro ore al giorno, e se sembra un obiettivo folle è perché anche abolire lo schiavismo lo sembrava, tempo fa (le iperboli sceme valgono un sacco di cuoricini, su Instagram).
Non sarò certo io a dire che la maggior parte di coloro che fanno un qualsivoglia lavoro ha una produttività così bassa in otto ore da farmi sembrare più sensato il ripristino dello schiavismo che il dimezzamento dell’orario di lavoro.
Non sarò certo io a ricordare che chiunque viva nel presente e conosca almeno due madri o abbia passato almeno due minuti in un gruppo tematico sa che le madri si dimettono entro l’anno di vita del figlio perché la legge italiana prevede che in quel caso ti spetti il sussidio di disoccupazione; il che significa che – tra certificato di gravidanza a rischio (che nessun medico non autolesionista ti negherà), congedo di maternità, e naspi – ti spettano quattro comodi anni di vita a scrocco della fiscalità generale, cioè di noi quattro che paghiamo le tasse (e l’affitto).
Non sarò certo io a dire solo-in-Italia, primo perché è una formula sciatta e ignorante, e secondo perché l’ultima cosa che ho fatto prima della pandemia è stato girare per una Parigi intasata di manifestazioni di francesi indignati perché si voleva ritardare l’età della pensione per i macchinisti, che all’epoca mi pare fosse di 52 anni: c’è sempre qualcuno più cialtrone di noi.
Faccio però presente che, in questa vessatoria società ai limiti dello schiavismo in cui lavoriamo otto ore al giorno per cinque giorni a settimana, quindi quaranta su centosessantotto (al netto di ferie, permessi, malattia, e tutte quelle cose che ormai hanno persino i fattorini di Glovo e che io non ho mai avuto, e all’epoca mia noialtri con partita iva non avevamo neanche Di Maio a difenderci), in questo tempo descritto come la miniera da articolisti evidentemente equipaggiati di ticket restaurant e congedi di maternità, in questo tempo qui l’umanità è comunque così carica d’un eccesso di tempo libero, e così priva di mezzi per riempirlo, che guarda qualunque stronzata di sceneggiato su qualunque piattaforma, posta comunque ogni mattina sui social il proprio risultato su Wordle, ha comunque spazio mentale e temporale, nelle proprie fordiste giornate, per avere opinioni su tutti i talk-show che non ha visto, su tutti i titoli dei giornali che non legge, su tutti i comizi dei politici che non vota.
E va tutto bene, per carità, se riempite i social delle vostre opinioni su tutto tuttissimo sono io che devo smettere di guardarli, mica voi che dovete smettere di sfogare lì la vostra mancanza di vita interiore (altrimenti poi finisce che picchiate i familiari), va tutto bene e va bene anche se la pandemia vi ha fatto capire che si vive una volta sola (che è un antico modo di dire italiano, ma voi dite «yolo», you only live once: perché, delle due lingue che parlate male, l’inglese fa più di mondo).
Solo non ho capito: dopo che avete dato le Grandi Dimissioni, e anche se non avete l’onere dell’affitto da pagare, come fate col resto? Come fate la spesa, pagate le vacanze, le bollette, gli abbonamenti alle piattaforme su cui guardare qualunque stronzata per sfuggire al panico da noia, gli aperitivi? Come campate? È quella roba del grande risparmio delle famiglie italiane di cui si vantano sempre i politici? Dopo quante generazioni di fancazzismo finiscono, i Grandi Risparmi Italiani?