il Giornale, 3 maggio 2022
Leonard Cohen va alla guerra
Leggere di Leonard Cohen e del suo viaggio in Sinai nel giorno in cui Israele ricorda, 24 ore prima della festa dell’indipendenza, i più di 25 mila soldati caduti nelle sue guerre, senza contare le migliaia di uccisi negli attacchi terroristici, le decine di migliaia di feriti gravi... può essere una chiave straordinaria per penetrare il senso dell’avventura israeliana ed ebraica odierna.
L’autore del libro edito da Giuntina Il canto del fuoco (pagg. 240, euro 18), il bestsellerista israeliano americano Matti Friedman, cerca di penetrare i motivi che spinsero il cantante, dalla voce profonda, morto nel 2016 ad affrontare, armato solo della sua chitarra, la guerra sanguinosa del 1973, sul Canale di Suez. Ma di più, il libro, basato su un inedito taccuino dell’artista e su interviste ai soldati che lo videro cantare per la truppa sulle dune del Sinai, aiuta a capire come fa a vivere, e persino a essere felice, un popolo che è soggetto alla tortura della morte dei giovani, dei figli e dei fratelli. E in numeri così ingenti. I giovani vanno nella tzavà chi più chi meno entusiasta, molti scelgono un’unità combattente o anche tecnologica, ma tutti sanno che il destino della loro casa è nelle loro mani.
La guerra del Kippur scoppiò il 6 ottobre del 1973 ed è stata la più sanguinosa di tutte, con 2656 uccisi, nel Sinai o sul Golan, e quasi 12mila feriti. Numeri enormi per il piccolo Stato ebraico che fu aggredito di sorpresa nel giorno del digiuno sacro del Kippur: l’Egitto e la Siria, ancora furiosi per la sconfitta del 1967, ne misero allora a rischio non meno della vita.
Dal Sinai invaso dagli egiziani si rispose con furore, genialità e in mezzo a una confusione micidiale nella sabbia della deserto, con il generale Ariel Sharon al comando. Quando Sharon con un’azione quasi suicida, riuscì a traversare il canale di Suez e ad aggirare le forze egiziane che avevano fatto strage di ebrei, Cohen era seduto a cantare piano con la sua chitarra per i soldati che non si sapeva se sarebbero sopravvissuti.
Fra questi soldati distrutti di fatica, con la chitarra a tracolla, una camicia da soldato color kaky, Leonard Cohen - che allora aveva 39 anni- si aggirava e cantava dove poteva, fotografato in maniera approssimativa mentre si esibiva seduto su un parafango, ritto in mezzo a un circolo di uomini, anzi, di ragazzini con i capelli lunghi e di ragazze incantate che stavano per precipitarsi in battaglia o per essere bombardati, o che erano appena tornati. Cantava intimo e poetico, spesso lo interrompeva la sirena antiaerea e si correva ai rifugi. Poi, Cohen cantava di nuovo, e così alcuni altri artisti coraggiosi.
Cohen disse, componendo una strofa perduta di Lover lover lover, scritta allora, che «era andato nel deserto per aiutare i suoi fratelli a combattere». Poi, quella strofa l’ha tolta, nel clima generale di critica a Israele. Ma la canzone è rimasta.
In questa strana vicenda Matti Friedman scandaglia, con sottigliezza, l’identità ebraica di Choen, evitando di enfatizzarla troppo, riempendo il lettore di dubbi dato il pacifismo, la vaghezza, la meritata fama di don giovanni del cantante. Ma poi di nuovo arrivando a metterla al centro, con la testa fuori dalle onde del tempo. Si tratta della storia, affascinante, di uno dei tanti Baruch Spinoza, dissidente ma appassionato ebreo.
Dunque, due avventure si annodano in quel giorno di Kippur: la prima quella dell’ebreo apolide del nostro tempo, di cui Cohen è un esempio tipico, mistico ed ateo, peccatore e salvatore, sfiancato dai suoi propri errori e forse dall’alcool. A cui si aggiunge una donna mal sopportata (ne scrive negli appunti tutto il male possibile), abbandonata su un’isola greca con un bambino piccolissimo. E ancora: una personalità così narcisistica da non sopportarsi più (aveva appena cantato sull’Isola di Wight al famoso concertone con grande successo) e decidere dunque di piantarla lì con tutto, e andare «a fermare le pallottole degli Egiziani col mio corpo».
Dall’altra parte, mentre Cohen si aggira per i bar di Tel Aviv, e si dedica a qualche avventura erotica, incontra un gruppo di cantanti che andranno, come usa, a cercare di rallegrare le truppe. E li segue. Qui si incontra il vero protagonista, la pazzesca avventura dei ragazzi nel Sinai.
Il libro comincia appunto con la loro inconsapevolezza e la loro felicità collettivistica, insieme in una specie di vacanza militare a Sharm el Sheich, dove si innamorano e prendono il sole. Poi li fulmina l’attacco egiziano: Doron, il ragazzo con cui una delle soldatesse dell’avamposto sta iniziando una storia, viene subito spazzato via con un attacco dal cielo, che si moltiplica senza fine. C’è un diciottenne che rifiuta di alzarsi dal letto e dice «ma io sono solo un ragazzino» e, infatti, salterà per aria. I ragazzi che oggi hanno più di sessantanni sono ancora stupefatti di aver visto fare a pezzi i loro amici, di aver scoperto che le troppe mosche erano dovute ai cadaveri semisepolti nella sabbia, che nessuno di quelli che sedeva per terra come si vede nelle piccole foto del libro poteva essere sicuro che sarebbe stato ancora vivo dopo mezzora. Molti infatti non ce l’hanno fatta, e il libro lo racconta con le avventure di vari personaggi che hanno sentito cantare Cohen. Cohen si appoggiava a un’auto o stava ritto con la chitarra, insieme a lui c’erano cantanti poi diventati famosi come Matti Caspi o Ilana Rovina, alle spalle si vede Ariel Sharon che in una foto da un bacio di gratitudine alla Rovina che rischia la vita cantando. Per Cohen la guerra è stata una passeggiata mistica ma molto concreta, che gli ha cambiato la vita; un suo simbolico voto di castità si accompagna al senso di ritorno al suo popolo. Cercherà ancora di annacquare la sua passione contro i nazionalismi, le fedi, le guerre: dopo tutto è un universalista laico ebreo, come ce ne sono ancora tanti. Ma poi il suo nome stesso: Cohen, ovvero i sacerdoti ebrei da duemila anni, lo riporta a casa dentro se stesso, nel giorno di Kippur, in cui secondo la tradizione, Dio stabilisce chi vivrà e chi morirà. Una preghiera vecchia di mille anni «Un’taneh Tokef» gli ispira una canzone meravigliosa e terribile, quella che ripete con versi diretti e persino brutali «chi vivrà e chi morira». E canta «Chi a causa dell’acqua e chi a causa del fuoco, chi a causa di una bestia selvaggia e chi di spada, chi per fame e chi per sete...» e Cohen aggiunge altre cause come l’esplosione... Quello che è sicuro è che quei ragazzi che lo guardavano, e ascoltavano la dolcezza delle sue note, sapevano che avrebbero potuto morire. Così era ed è Israele, e Cohen lo capisce e lo ama. Scriviamo appunto nel Giorno della Memoria dei suoi caduti che sfocia direttamente a sera in quello della Festa della nascita di Israele.
Cohen dopo il viaggio nel Sinai tornò alla moglie e al figlio, con cui ha costruito un rapporto che è durato fino alla fine della sua vita.