Il Messaggero, 3 maggio 2022
La tradizione dei film horror giapponesi
Non sono certo il primo a sostenere che l’horror giapponese sia oramai uno dei pochi in giro per il mondo a funzionare. Aiutati dall’assenza del senso di colpa, di giustizia (sia terrena che divina) e più in generale di un concetto di moralità assoluta, registi e scrittori possono ignorare la pressione giudaico cristiana al lieto fine e regalarci opere davvero crude e spietate, sia nella forma che nella sostanza.
Il bimbo che precipita dal quarto piano di un palazzo nei film giapponesi in genere non trova il provvidenziale albero o il tendone di un ristorante che ne attutisce la caduta, e nemmeno la nonnina che lo afferra al volo. Chi ha visto almeno un film di Takashi Miike sa di cosa sto parlando. E che il suo mito sia arrivato anche in Italia lo dimostra la sala strapiena registrata a Udine nei giorni scorsi, in occasione del Far East film festival.
La versione restaurata del suo capolavoro (risale al 1999) Audition, ispirato all’omonimo romanzo di Ryu Murakami, ha registrato il tutto esaurito, nonostante la proiezione sia avvenuta alle 9 di mattina (e complimenti al pubblico di Udine: non è da tutti avere il coraggio di iniziare la giornata con un film di Miike, ed in particolare questo film). La questione, tuttavia, viene da lontano, e nasce nel mondo letterario, prima ancora che in quello cinematografico.
In Europa, e ancora meno in Italia, sono in pochi a conoscere Edogawa Rampo. Alias Taro Hirai (1894-1961), fondatore del brivido giapponese. Hirai aveva scelto questo nome de plume in omaggio al maestro del brivido americano Edgar Allan Poe, scomparso alcuni anni prima della sua nascita, ma che in Giappone appena riapertosi al mondo dopo oltre due secoli di isolamento - era ancora pressoché sconosciuto. Hirai aveva già 28 anni quando esattamente un secolo fa, nel maggio 1922, propose il suo primo racconto alla casa editrice Shin Seinen. Si intitolava The Tuppence Coin (La moneta da due penny). Quasi interamente ispirata (per non dire copiata) ad un racconto di Poe, ma all’epoca non era facile smascherare i furbetti e Hirai ebbe un enorme successo.
Fu grazie a lui che un genere completamente ignorato e deriso, considerato spazzatura dall’establishment letterario dell’epoca, cominciò ad affermarsi, sino a diventare uno dei più importanti e universalmente acclamati. «C’è solo un’occupazione più ignobile dello strozzino: quella del detective», sosteneva all’epoca Soseki Natsume, considerato il più grande scrittore giapponese nell’era moderna (autore, tra l’altro, del per certi versi esilarante Sono un gatto) la cui effige è appara per molti anni sulla banconota da 1000 yen. Il che non esclude il fatto che fino all’irruzione di Edogawa Rampo esistesse comunque un filone locale di noir, come i racconti popolari, quasi sempre anonimi perché ispirati a fatti di cronaca reali, quindi facilmente individuabili, noti sotto il nome di hanka-cho. Dove gli eroi erano le spie, i traditori, gli informatori, insomma quelli che oggi defineremmo gli infami e che in giapponese vengono compresi nel termine generico di okappiki. Dove i cattivi sono i buoni e i buoni, ahimè, non esistono proprio.
È ovvio che, come avviene in altre società, cronaca e immaginazione vanno a braccetto. Sempre difficile stabilire se è un fatto criminoso avvenuto nella realtà ad ispirare uno scrittore/regista o il contrario. E anche in Giappone avviene lo stesso. Lo stesso Edogawa Rampo iniziò la sua fortunata serie di racconti, tutti dall’orrido fine, ispirandosi al primo caso ufficiale di omicidio motivato da istinti sado-maso, nel lontano 1917. Filone che poi è diventato dominante tra le varie perversioni che emergono nella società giapponese, e che si riflettono nella letteratura noir e nel cinema dell’orrore.
E fin qui, nulla di strano. Il problema, rileva il sociologo Kenji Kazama in un articolo recentemente pubblicato dalla rivista Shukan Shincho, è quando la realtà va per conto suo. Come pare stia avvenendo in questi ultimi tempi in Giappone: aumento di crimini efferati e, dopo un lungo periodo di calo, l’impennata di suicidi.
L’ultima moda, racconta Kazama, è il suicidio on line, in diretta. Nonostante le varie e costose misure adottate dalle ferrovie, ad esempio, aumentano i casi di persone che si suicidano buttandosi sotto ai treni dopo aver piazzato il telefonino in una posizione capace di riprendere la scena e dopo magari aver lasciato un macabro, ancorché drammatico, messaggio. «Qui la tradizione letteraria o cinematografica c’entra poco - scrive Kazama è evidente che qualcosa nella nostra società non funziona. Governo e autorità locali dovrebbero farsene carico e intervenire.