Il Messaggero, 3 maggio 2022
Giorgio Fontana ha scritto un libro sullo scacchista Tal’
Boris Spasskij lo chiamava il Messia degli scacchi. A trent’anni dalla morte, il fuoco della vita di Michail «Mia» Tal’, acceso fino all’ultima mossa, continua ad ardere come il suo talento precoce, irriverente e geniale a essere narrato. Prima di Kasparov è stato il più giovane campione del mondo di scacchi nella storia. A ventitrè anni Tal’ compì la rivoluzione, sconfiggendo Botvinnik, il Patriarca della scuola scacchistica sovietica, e affermò il proprio principio: «Non si deve avere paura di perdere una partita».
Giorgio Fontana, già vincitore del Premio Campiello per Morte di un uomo felice, con Il Mago di Riga (Sellerio, 119 pagine, 13 euro) restituisce il senso della vita appassionata e libera di Tal’, che ha inventato un altrove artistico con gli scacchi. Il romanzo si dipana con costanti flashback, ripercorrendo la storia rapsodica dello scacchista dalla partita finale. Era il 5 maggio del 1992. Cinquantacinquenne, a poche settimane dalla morte, Tal’ illuminò ancora la scena, attingendo alla fantasia e all’irriverenza che l’animavano negli assalti.
Per il suo stile era difficile confermarsi a lungo campione. Bruciò così velocemente le tappe da sentirsi invincibile. Cadde e si rialzò con lo stile che lo esaltava.
Tal’ era un genio?
«Sì. Fin da bambino aveva mostrato un’intelligenza superiore alla media. Gli allenamenti degli altri erano incompatibili con la sua genialità. Parlare del suo stile rivoluzionario è come discutere dell’aspetto di Dio. Puoi cercare di farlo, ma ti sfuggirà sempre qualcosa. Il tipo di gioco all’attacco sembrava provenire quasi da un altro pianeta come lui».
Era felice?
«Ho cominciato la ricerca per il romanzo anche da questa domanda. Mi sono misurato con l’idea del genio che a volte dissipa il talento. Mia a differenza di altri è stato un genio felice. Cambia l’immagine stereotipata dello scacchista sempre sull’orlo della follia e della solitudine. Era una persona simpatica che non aveva nulla di arrogante».
Che cosa lo distingueva dagli altri scacchisti?
«Gli appassionati ammiravano la ricerca del piacere e di una soluzione elegante nel gioco che seduceva. Era diverso dai contemporanei austeri dal portamento sacerdotale».
L’energia andava oltre il corpo minuto segnato dalle malattie?
«Le testimonianze riportano la percezione della sua aura fortissima. Era piccolino, non raggiungeva neanche un metro e sessanta di altezza. Non era un uomo imponente, ma quando entrava in una stanza trasmetteva l’elettricità e irradiava gli altri».
Che cosa significava per lui appartenere agli scacchi?
«Esprimeva l’amore per l’aspetto puramente ludico come se fosse un dilettante nel senso etimologico del termine, giocava per diletto e assecondava la volontà di piegare le regole alla propria libertà».
È possibile a quel livello di competizione?
«Mantenere questo spirito nei confronti del gioco è impensabile, eppure lui ci riuscì. Era unico».
Voleva tutto?
«Nella sua esistenza non sono mancati i piaceri terreni. Non era un asceta che si isolava per giocare. Aveva un grande fascino. Era fedifrago. Fumava e beveva tanto. Emerge un’apparente contraddizione tra il campione che si realizza pienamente nel gioco e al contempo vuole tutto dalla vita. Per ottenerlo ha pagato un dazio, bruciandosi molto in fretta. La combinazione di vari fattori gli ha impedito di tornare ai livelli magici del triennio 1958-1961».
Perché Tal’ associava gli scacchi a uno spazio creativo artistico?
«È qualcosa che ha interrogato generazioni di scacchisti. Gli scacchi sono tante cose insieme: lotta, sport, strategia e arte. In Mia l’elemento artistico è molto sentito».
Che cosa comportava?
«La ricerca di una bellezza fulminante, esplosiva era fatta di sacrifici rischiosi nella partita e a volte prendeva il sopravvento. In diverse partite, per vincere in maniera ancora più spettacolare, rischiava di perdere tutto».
Era una dichiarazione di libertà?
«Per la logica sono errori che si pagano con i punti, mentre per Tal’ contava creare una forma di disordine che portasse alla bellezza peculiare sulla scacchiera. Questi errori sono una testimonianza e attestato di libertà fortissima».
Poneva la bellezza al di sopra della vittoria?
«Questa cosa è molto affascinante, perché integrava la vulnerabilità all’interno del gioco, rifuggendo l’ideale di perfezione. Sperimentare era importante ed era talmente forte da vincere lo stesso».
All’epoca gli scacchi erano anche oggetto di propaganda. Qual era il rapporto di Tal’ con il regime sovietico?
«In quanto scacchista era molto rispettato e apprezzato, seppure fosse una specie di scheggia impazzita. Non era controllabile. Incarnava un tipo di libertà difficilmente sopportabile dal regime. Non gli interessava innalzare la bandiera dell’Unione Sovietica, ma giocare e condurre la propria vita».
In che modo?
«Riuscì a determinare il proprio libero arbitrio, tenendosi al riparo dalle questioni politiche. C’era un rapporto fortemente dialettico tra lui e l’Unione Sovietica: da integrato pienamente nel sistema è stato decisamente apocalittico».
È tramontata l’era della sfida del secolo Spasskij-Fischer?
«In parte è venuta meno con la fine dei grandi blocchi ideologici, ma gli scacchi attraversano una fase di rinascimento. Gli scacchi restano qualcosa che spacca le frontiere. È paradossale, perché il gioco simula la guerra, tuttavia la spoglia della violenza e la critica nel mondo reale».