il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2022
Draghi s’è venduto cannoni che non ha
“Lorenzo Guerini è un democristiano talmente raffinato, che magari fa credere agli Stati Uniti che mandiamo a Kiev più artiglieria pesante di quanta effettivamente siamo in grado di inviare, mentre qui da noi lavora a tenere bassa la notizia”. La riflessione arriva da parlamentari che il ministro della Difesa lo conoscono bene. Ma la (mezza) battuta, illumina una questione: il tema dell’invio di cannoni, carri armati e semoventi non è solo politico, ma anche militare. E se Mario Draghi si è impegnato con gli States anche sulle forniture di armamenti pesanti, in concreto non è facile farlo. Perché l’arsenale dell’Esercito italiano non è dei più forniti e dunque fonti militari e governative confermano che non abbiamo né carri armati, né obici semoventi in più da inviare a Kiev.
“Non sono nemmeno tutti in ottimo stato di manutenzione, nel conto dei carri ci sono anche quelli già dismessi”, dice un altro ufficiale. Altri sottolineano che “le difese sul territorio sono già al minimo, in questi anni l’Esercito è stato penalizzato rispetto all’Aeronautica e alla Marina, anche per interessi industriali”. Qualcosa in più delle vecchie mitragliatrici e dei vecchi razzi stinger consegnati finora agli ucraini si può trovare, dai blindati ai mortai che però sparano a 7/8 chilometri di distanza, non a 40 come gli obici semoventi Pzh2000 su cui peraltro sono in corso addestramenti. Poco, insomma, al confronto di quello che stanno facendo altre nazioni. Come la Germania, dopo la svolta di Scholz e la Gran Bretagna, che ieri ha annunciato altri 360 milioni di euro di armi per Kiev. L’Italia promette, ma poi resta sul vago. Potremmo cavarcela addestrando gli ucraini, forse in Polonia, all’uso degli obici forniti dai Paesi Bassi.
Anche per questo il terzo decreto interministeriale (Difesa, Esteri, Mef), del quale Guerini ha parlato in più occasioni, si complica: la lista sarà sì secretata, ma verrà messa a disposizione del Copasir. Quindi, un gioco di prestigio non è facile. E al di là delle tensioni nei partiti di maggioranza, bisogna rispondere alle richieste. “Mario Draghi e il Parlamento italiano stanno facendo molte cose per sostenere l’Ucraina e i nostri rifugiati in Italia. Anche sulle armi, Draghi capisce la situazione e credo che stia facendo il meglio per il nostro Paese”, ha dichiarati ieri all’Ansa Daria Volodina, deputata ucraina e co-presidente del gruppo parlamentare di amicizia italo-ucraina. Che ha definito quella del premier a Kiev “una visita importante”. Leggendo in controluce queste parole, si capisce che le richieste sono pressanti e continue, i fatti meno.
Draghi in Ucraina non è ancora riuscito ad andarci, il decreto interministeriale in questo momento sembra subire un rallentamento. Palazzo Chigi che sta facendo un supplemento di riflessione.
Nel frattempo, da più parti arrivano sollecitazioni al premier perché non si appiattisca troppo su Joe Biden. Draghi andrà alla Casa bianca l’11 maggio, ma la sua volontà di dare prova di atlantismo si scontra con la realtà. E in Italia aumenta la pressione affinché torni in Parlamento a riferire e non segua gli Stati Uniti se gli obiettivi della guerra cambiano: ovvero se si passa da un aiuto alla Resistenza ucraina a una guerra per rovesciare Putin. Il dissenso aumenta. Per dirla ancora con la Volodina, “la campagna elettorale è già cominciata e ho paura che alcuni parlamentari possano cambiare idea sulla guerra, perché questa forte posizione nel sostenere l’Ucraina a volte non è molto comoda”. Non è passato inosservato – anche tra i cattolici democratici – il riferimento di Sergio Mattarella agli accordi di Helsinki, ovvero “dialogo, non prove di forza tra grandi potenze”. Mentre e il segretario del Pd Enrico Letta chiede con insistenza un coordinamento dei leader europei. Domani in un’agorà del Pd organizzata da Roberta Pinotti sulla Difesa europea ci sarà, oltre a Letta e Guerini, anche Paolo Gentiloni. Perché il relativo affrancamento dagli Usa passa per un rafforzamento dell’Europa e della Difesa. Un programma per ora più in potenza che in atto.