La Stampa, 3 maggio 2022
L’allegra primavera di Mosca a 4 ore dall’inferno
Sta partendo il «Sapsan», basta salirvi e lasciare la vivace capitale primaverile, i ribollenti Patricks, i teatri di Mosca, i centri commerciali affollati e gli eterni ingorghi per ritrovarsi nella soleggiata e fresca San Pietroburgo. Lì si può camminare lungo gli argini, socchiudere gli occhi e lasciarsi sfiorare dalla brezza, organizzare un breve tour nei famosi «gastropub» della città. Sembra che San Pietroburgo sia lontana, ma eccola invece, è molto vicina – poco più di settecento chilometri. Sono solo quattro ore di treno ad alta velocità e ci si trova in un’atmosfera completamente diversa. E se i «Sapsan» non fossero andati a nord dalla stazione di Leningradsky, ma a sud – dalla Kievsky – i moscoviti sarebbero arrivati a Kharkiv nelle stesse quattro ore.
Ricordo che quando ero piccolo viaggiavo verso sud e ci fermavamo a Kharkiv, anche se con un treno normale. A Kharkiv si rimaneva per circa un’ora. Tutti sulla piattaforma parlavano russo, si compravano tortini di patate, semi e cetrioli leggermente salati. Non so quale sia il motivo, ma ne ho ancora un ricordo preciso. Ora il treno Mosca-Kharkiv sarebbe arrivato dritto negli inferi. In una città dove duemila case sono state distrutte dai bombardamenti russi. Grattacieli, scuole, ospedali. In una città dove un terzo degli abitanti se n’è andato, e il resto, aggrappato ai frammenti della sua vecchia vita per tenacia e ostinazione, rischia ogni giorno di morire colpito da schegge di missili e da proiettili russi. Una città assediata da un nemico spietato che ha mostrato di cosa era capace a Bucha e Irpin.
Un nemico spietato? Ma chi è questo nemico? Dopotutto, non sono le stesse persone che camminano sui Patricks, comprano ogni genere di cose nei centri commerciali di Mosca e restano negli ingorghi, sognando di tornare a casa il prima possibile, dove la loro famiglia li sta aspettando? Alla fine queste persone sono solo persone, non possono augurare la morte ad altre persone come loro, che hanno case come le loro, che parlano la stessa lingua e che spesso portano lo stesso nome. È così? Non è possibile. Queste persone in fondo non commettono alcun crimine e non sparano a nessuno. Cosa stanno facendo? Fanno finta che non stia succedendo niente. Cercano di non discutere di ciò che sta accadendo da loro a circa quattro ore dal «Sapsan» che li porterebbe all’inferno. Fortunatamente, il cannoneggiamento di Kharkiv non si sente a Mosca, e a nessuno importa quanto tempo ci si mette dalla capitale russa per arrivare a Mariupol. Se si inserisce la ricerca su Yandez «Distanza da Mosca a Ma...», il primo risultato che esce è «Maldive». Ma vi do un indizio: ci vogliono quindici ore per arrivare a Mariupol da Mosca in macchina. Quindici ore di guida dagli affollati teatri di Mosca a un teatro con la scritta «Bambini» bombardato dalle forze aerospaziali russe. Fino a quello stesso ospedale. Fino ad «Azovstal», che resiste come la Fortezza di Brest. Resistere a chi? Non parliamone, non parliamo della guerra, non usiamo nemmeno la parola «guerra», perché non tutto è così inequivocabile. Balliamo, andiamo al ristorante, andiamo a teatro, andiamo al centro commerciale, a vedere almeno un film, facciamo finta che la vita vada come al solito, che vada tutto bene. Bene, sì, bene, una specie di operazione speciale, beh, da qualche parte dei nazisti Azov, beh, al diavolo, è lì, non è niente che stia succedendo tra te e me. E, tra l’altro, non è bello neanche per noi: i nemici spegneranno Apple Pay, poi McDonald’s chiuderà i battenti, pensano che ci faranno morire di fame. E per far loro dispetto, cammineremo ancora e ci divertiremo, spaventeremo il riccio mostrandogli il nostro culo nudo!
Mosca e San Pietroburgo sembrano normali, hanno una vita normale, quasi la stessa di prima. Si vive in una bolla: un piatto di insalata o una zuppa di cavoli, un palcoscenico teatrale, uno schermo cinematografico, il modo di andare al lavoro, la strada di casa. E di tutto quello che ribolle di sangue e pus fuori dalla bolla, ciò di cui ora è fatto il resto del mondo, è come se non esistesse. Sì, invece, esiste e basta. Sì, non ha ancora sfondato la placenta, non ha ancora versato sangue e pus nella vita di ciascuno di noi, ma la pressione all’esterno si sta rafforzando e cresce anche all’interno della vescica. I treni russi non vanno a Nikolaev, a Odessa e a Kramatorsk, a Bucha, a Donetsk. L’Ucraina, abitata da persone viventi, che l’esercito russo uccide ogni giorno invano, proprio così, senza motivo o ragione, è stata tagliata con precisione fuori dalle comunicazioni con la Russia. Guardiamo solo il piatto, senza distogliere mai lo sguardo, in nessun caso. Non muoviamo un dito.
Ma in nome della Russia, ogni giorno in Ucraina vengono commessi omicidi e distruzioni, con falsi e diversi pretesti. E piano piano stanno arrivando anche alle persone che vivono nella bolla. La puzza di cadavere penetra, la placenta non riesce a filtrare tutto. E peggio ancora: la puzza diventa parte della normalità, l’uccisione di civili con gli stessi nomi e cognomi è diventata parte del paesaggio. La regola è diventata notarlo, non parlarne, e se proprio bisogna parlarne, allora ecco i cliché preparati dallo Stato, bugie deliberate. I divieti biblici sono stati revocati, e anche i più antichi tabù vengono aboliti, quasi fino a cercare una giustificazione per il cannibalismo. Non è necessario credere che la nuova normalità sarà simile alla vecchia normalità. Il veleno è già penetrato sia nel corpo che nell’anima, semplicemente non agisce all’istante. Ci rifiutiamo di pensare che il treno da Mosca all’inferno ci metta solo quattro ore. Non andremo all’inferno dalla vivace primavera di Mosca, ma la strada è lì, e ora sarà l’inferno a precipitare verso di noi.