Tuttolibri, 30 aprile 2022
Da "Un’educazione paperopolese. Dizionario sentimentale della nostra infanzia" di Valentina De Poli (il Saggiatore)
Questo libro è tutt’altro che un fatto privato. Ma per come è arrivato, dopo la brusca interruzione di un lungo viaggio personale, e per l’urgenza soffocata e a fatica liberata che lo ha richiamato, sarebbe potuto rimanere intimamente custodito in una cartellina del computer. E, per manifesti fattori anagrafici, avrebbe anche goffamente potuto intitolarsi «I miei primi 50 anni», di quando si scrive perché è arrivato il momento di fare un bilancio della propria vita - è utile, dicono - e ognuno lo fa con gli strumenti che conosce. Si fa perché lo dobbiamo a noi stessi - si dice anche questo. Ma se gran parte di quei cinquant’anni li hai trascorsi da raggiante (quasi sempre) pendolare tra Paperopoli e Milano, da privilegiata cittadina del mondo e di Topolinia, quando ti appresti a dare un senso ai ricordi capisci che c’è qualcosa di più grande del tuo ombelico a cui riferirti. Già, perché quando ho cominciato a mettere in fila le esperienze della mia vita vissuta tra mondo reale e mondo fantastico, mi sono ritrovata a fare il punto su una condizione che riguardava milioni di persone. Quando dico milioni, non sto esagerando. È l’ordine di grandezza per misurare i lettori, ex ragazzi nati tra gli anni ’50 e gli anni ’90 - Governatori del Club, Giovani Marmotte, Toporeporter - che si sono formati sulle pagine di un giornale a fumetti, ma che è molto, molto di più: è Topolino. Piccolo per stazza, gigantesco per rilevanza culturale. Milioni di lettori che come me su quelle pagine hanno allenato la meraviglia nei confronti del mondo grazie alle storie di personaggi con zampe e nasi tartufati e, il più delle volte, con loro hanno imparato a leggere. Il destino ha voluto che di quel magazine unico al mondo, italianissimo fenomeno generato dal grande sogno americano, io abbia potuto frequentare il backstage fin da quando ero poco più che adolescente: ho cominciato nel 1988 rispondendo alle letterine dei lettori del Topo, come è chiamato confidenzialmente tra le mura redazionali, fino a diventarne il fiero e caparbiamente felice direttore responsabile per poco più di un decennio, fino al 2018. Un ruolo quest’ultimo che nella storia del giornale è stato ricoperto da una manciata di esseri umani, giornalisti dal Dna papero, invidiatissimi dai colleghi, a volte sottovalutati da una certa intellighenzia, ma poco conta perché è la stessa che nel dibattito trova sensato irridere gli avversari dicendo «Ma dove lo hai imparato, su Topolino?», provocando clamorosi autogol.
Rivolgersi a schiere di lettori bambini non è una responsabilità risibile. Lo capisci quando con quei giovanissimi hai il contatto quotidiano e da quello che ti rimandano. Quando senti il bisogno della loro energia per poter alimentare pagine lette anche da adulti, ex bambini che anno dopo anno sono andati a costituire lo zoccolo duro di seguaci di Paperino&Co. che su quelle pagine molto hanno imparato, soprattutto ad aprire la mente. Da almeno trent’anni i tre quarti dei lettori del settimanale sono over 18 che non possono rinunciare a certe emozioni vissute nella fanciullezza. Continuano a inseguirla tra le pagine, anche solo per poter dire che le loro storie, quelle «di una volta», erano le più belle, ma perché in verità a essere bella era quell’età lì. Sfogliano e leggono per misurare la loro capacità di meraviglia, per paura di perderla.
L’intento di questo memoir è proprio quello di ritrovarla e ritrovarsi. Per districarmi tra ricordi e aneddoti e affrontare il percorso del libro a guidarmi è stato lo stupore che ancora oggi sa suscitare nelle persone la rivelazione di aver vissuto per tanti anni dietro le quinte di uno dei giornali settimanali più amati d’Italia, tra Paperi, Topi e grandi artisti, i Maestri della Scuola Disney italiana.
Com’è scritto sul risvolto di copertina «Un’educazione paperopolese è il diario personale e collettivo del sogno a colori di un paese intero. Un’opera sulla nostra infanzia e i suoi eroi, e su come ci hanno fatto diventare quelli che siamo oggi: un ritratto unico delle piume e delle code che, sotto a giacche eleganti, tailleur e cravatte, portiamo ancora oggi tutti i giorni con noi». Diciamo così: mi sono tolta la giacca, ho gonfiato le piume - un po’ per farmi coraggio, un po’ per l’orgoglio - e ho cercato di raccontare l’intima relazione di un giornale con i suoi lettori e di che cosa è stato Topolino per l’immaginario degli italiani. Senza fare troppa filologia, ma mettendoci tanta anima e vita vissuta. L’ho fatto dal mio punto di vista privilegiato, svelando qualche segreto del dietro le quinte di un sogno e rispondendo anche a domande cosmiche tipo «ma le storie le fa il computer?». A mano a mano che scrivevo dell’incontro con disegnatori e sceneggiatori, di quotidianità da redazione, di certe indimenticabili storie, di numeri da capogiro, dei miei maestri, di certe pubblicità degli anni ’70, di letterine che si sono trasformate in email, del valore delle parole desuete nel lessico del giornale, della soddisfazione, da direttore, di far suonare tutti gli elementi di un’orchestra fatta di Paperi ed esseri umani insieme, della velocità smodata con cui siamo entrati nell’era digitale che ci ha fatto sentire improvvisamente così lenti, ecco: mi rendevo conto che, capitolo dopo capitolo, si stava componendo la mappa dell’evoluzione di un «giornalino» che grazie all’irripetibile mix tra autorevolezza e leggerezza raccontava di una società che cambiava. A volte, anticipandone scoperte e visioni. Sempre, rivelando ai più giovani le debolezze del mondo degli adulti, insegnando loro a riderci sopra perché, come diceva il grande Massimo De Vita con Cavazzano il mio autore del cuore, «Vedi Valentina, il mondo sarà salvato dall’ironia».
Io mi sono divertita a mettere in ordine questi ricordi, dove le cose belle superano di gran lunga i dispiaceri. Essere diventata grande tra grandi personalità della realtà e grandi personaggi del nostro immaginario è stato un privilegio. Così come aver assistito alla nascita del numero 2000 del Topo e aver vissuto sulla mia pelle quella del numero 3000. Di essere stata inviata a Sanremo per il giornale e di essermi sciolta a San Siro mentre il Jova mostrava il suo Topolino sul maxischermo da 800 metri quadrati di led cantando Ragazzo fortunato. Di aver bevuto molti caffè con l’autore dei Promessi Paperi e di aver visto nascere Pippo Novecento. Di aver potuto coltivare la memoria dei bambini di oggi per quando saranno grandi e solo loro potranno dire come è andata. Io intanto dico la mia. La nostra Educazione paperopolese ci rende speciali. E sì, siamo stati ragazzi davvero fortunati.