La Lettura, 1 maggio 2022
Su "La mia giornata nell’altra terra" di Peter Handke (Guanda)
Misterioso, selvatico Handke. Nel suo più recente romanzo/ racconto tradotto in italiano, La mia giornata nell’altra terra. Una storia di demoni, lo incontriamo — ammesso che sia lui, comunque il tipo che racconta lo fa in prima persona e gli assomiglia molto — nelle vesti di un randagio, vagabondo per le campagne di un paese non bene identificato e accampato, per le ore di ristoro, in una tenda piantata tra le lapidi di un vecchio cimitero. Quelle vesti, a dispetto del giaciglio di fortuna, sono linde ed eleganti, e in effetti ricordano un po’ le bellissime camicie sdrucite di Handke, decorate a disegni floreali con ricami di vari colori che potrebbero essere dei rammendi ma rimangono preziosi e molto chic.
Non sono tanto la bizzarria dell’aspetto e dell’alloggio a incuriosire in questo personaggio, quanto la sua demoniaca possessione. Il suo demone, anzi, i suoi demoni (erano più di uno) lo inducevano a girovagare come un sonnambulo, a parlare da solo, a farfugliare innocue invettive rivolte soprattutto a sé stesso, a cantare muto con la voce degli angeli, a indovinare con un’occhiata il destino degli altri: nessuna premonizione né predizione del futuro, ogni volta era un azzeccato riconoscimento. A metà della storia il lettore sorride impacciato, si sente un po’ a disagio, non sa che cosa pensare... che diamine, possibile? Plausibile. Ma la sorpresa, la vera sorpresa arriverà con l’esorcismo: con l’incontro con quel Buon Spettatore, figura aureolata, quasi messianica, dotata del talento di guardare, che appunto lo libererà con uno sguardo e lo avvierà, a bordo di una rudimentale imbarcazione, verso l’altra terra. Laggiù sarà una festa, che noi non guasteremmo anticipandone i fasti. Solo sottolineiamo che ultimamente, negli ultimi testi, la festosità, la convivialità, perfino le danze, ricorrono come un topos, un luogo (non) comune e un momento straordinario nelle opere di Peter Handke.
Il quale rimane sempre il selvatico, misterioso Handke. «Scrivano, resta inosservato, sparisci tra il giallo dei denti di leone lungo il marciapiede. Cammina su una strada laterale, e poi su un’altra, e su un’altra ancora: È questo! Lascia che i tuoi cari vivano la loro vita, e tu sparisci!». L’invito, enfatizzato con energia da ben due punti esclamativi, è rivolto a sé stesso. È uno dei tanti pensieri estratti dall’ininterrotto soliloquio... dell’indemoniato? perché no... e annotato nei taccuini che accompagnano i suoi giorni.
Le opere e i giorni, i giorni e le opere, la giornata riuscita, la giornata di festa. È ancora il giorno a scandire il tempo della scrittura del journal, il diario che dagli inizi e anche prima, dai primi anni Sessanta antecedenti il debutto letterario del 1966, Handke compila quotidianamente. Scrive su snelli quadernetti di formato A 6, con copertina nera e fogli bianchi, che tiene sempre con sé, nella tasca dei calzoni o nel taschino interno della giacca. Li estrae per catturare un’idea, un’intuizione, il più delle volte una forma, dove capita: nel bosco, in treno, in chiesa, al bar, e... Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi.
È questo il titolo della raccolta più recente dei diari di Handke, uscita in Austria nel 2016 con le annotazioni appuntate tra il 2007 e il 2015, e adesso tradotta in italiano.
È un testo di ben altro carattere — naturalmente — rispetto a quello che, per pura contingenza editoriale, esce in italiano insieme ad esso. Accomunato al primo da una — molto relativa — vicinanza temporale, e dalla mano dello stesso traduttore, vi si ritrovano quei tratti di smaccata somiglianza di famiglia che tradiscono una stretta parentela. Soprattutto nelle figure ritornanti, a rigore sarebbe improprio dirle temi o Leitmotiv quanto davvero immagini ricorrenti. Già immagini, visioni. Tra l’altro in questi diari, dettaglio non secondario, per la prima volta la scrittura è corredata dai disegni dell’autore. La frutta, le mele soprattutto, di varie specie, e immancabilmente la mela cotogna. Le farfalle che svolazzano in coppia. I vortici, o turbini, o cerchi spiraliformi formati dal vento nei capelli dei bambini, dall’acqua che fa ruotare le infiorescenze del castagno nei gorghi della corrente o dalle foglie del tiglio che girano su se stesse cadendo dalla pianta. E poi l’evocazione degli avi, degli antenati, ricordati con la reverenza suscitata dal legame di un passato remoto, o, nel caso della bellissima madre, con l’affetto struggente e l’inconsolabile nostalgia del figlio senza padre. La figura quasi epica dell’uomo della domenica, è il nonno sloveno di Handke, ma spesso si confonde con la sagoma di Handke stesso, che cammina con il vestito della festa nel vento, un bimbo per mano, i pantaloni svolazzanti sulle gambe. E ancora, la piuma di poiana, il passante perfettamente sconosciuto che pure gli rivolge cordiale il suo saluto, l’estraneo che gli si affida per chiedere, a lui, l’apolide, lo sradicato, indicazioni stradali. O, più nascoste, meno appariscenti, le strie di catrame sull’asfalto, gli animaletti della campagna e del bosco — lucertole, rane e rospi, calabroni, vespe e formiche — e le conche scavate nel terriccio dai passeri che, a loro volta ruotando su sé stessi, fanno i serali bagnetti di sabbia. E quelle ombre, le ombre degli alberi, che oscillano inquiete o si stagliano immobili proiettate dalla luce di un lampione o dalla luce della luna sulla parete della stanza di notte.
Il lettore di Handke si sente avvolto in un’aria di casa, perché queste visioni compaiono in numerosissimi testi dell’autore, i diari, certo, La mia giornata nell’altra terra, ma anche Ancora tempesta, Attraverso i villaggi, La ladra di frutta, Lento ritorno a casa... Tracciano i contorni del suo ambiente, le linee del suo vastissimo orizzonte. Pedante sarebbe inventariare tali figure o, peggio, segnalarle come autocitazioni. Perfino nel ruolo di chi traduce, è meglio lasciarle lì dove sono, in quella particolare variante, sempre nuova, godendosi e lasciando godere il piacere di scoprirle o di ritrovarle.
Ecco, la traduzione. Lavorando ai due testi in parallelo, più o meno dall’estate scorsa, si incontravano problemi analoghi e diversissimi. Problemi? No, troppo scolastico. Ostacoli? Sì, ma come li intende lo stesso Handke: «Perché c’è un ostacolo lì? Per girarci attorno danzando...» (citiamo dai diari). Trappole? Mai. Tranelli? Neppure. Scherzi sempre! Sfide, certo. Giochi anche, mai gratuiti giochi di parole però, piuttosto certi divertimenti sulle forme caleidoscopiche del linguaggio che stimolano a continuare a giocare... Meglio fare un paio di esempi. «Chi gioisce del giorno, gioisce del mondo», dal lungo racconto La mia giornata nell’altra terra. «Chi ad un luogo non fa onore / non è degno di parole», da Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi. Nell’originale la rima c’è solo nel secondo caso, ma nel primo la frase è talmente ritmica e cantabile che doveva — doveva! — suonare anche in traduzione come una filastrocca. Niente leggi né regole, è la scrittura stessa a dettarlo. Ci vuole un po’ di orecchio, un po’ di fiducia, e allora, con un po’ di allenamento, è possibile lasciarsi andare. «Lascia», «lascia andare», «lascia apparire», «lascia che sia», «lascia fiorire», «lascia esistere», «lascia cantare», «lascia e divieni!»... È tra le esclamazioni, i propositi, tra i tanti «undicesimi comandamenti» più ricorrenti nel libro scritto «davanti all’ombra degli alberi».
Allenati da questo — non facile — esercizio, si percorreranno anche le famigerate frasi lunghe di Handke, tutte d’un fiato. La norma infallibile è Handke stesso a enunciarla: «Fai attenzione alla forma grammaticale del vero. Se la perdi, perdi la verità, nonostante l’impulso veritiero». Con il tedesco è facilissimo. Basta tenere d’occhio la grammatica, appunto: i casi e i complementi, le preposizioni e la punteggiatura che domano e dispongono il ginepraio delle proposizioni subordinate, gli incisi, le particelle modali che, anziché interrompere, sospingono il movimento vigoroso della frase, come pure l’inseguire rapito e curioso del lettore che tiene dietro al filo della scrittura fino al punto fermo. In italiano però il periodo non si costruisce con la stessa rigorosa geometria. E allora, come raccapezzarsi, o come aiutare il lettore a non smarrirsi? È ancora Handke a insegnare: «Il segreto della vita? Un fenomeno ritmico. Il ritmo dell’anima non è nella musica ritmica, bensì nel linguaggio, e non nel linguaggio ritmato».
Niente tecnica, dunque, nessuna teoria della versificazione nelle sue prose, proprio le due che presentiamo qui, le quali scivolano entrambe continuamente, ma non intenzionalmente, verso la poesia: «Stanchezza e bisogno, bisogno e stanchezza: i versi di un canto?», dalla Storia di demoni. E ripetutamente nei diari: Quasi una poesia: «Che intendi fare oggi?/ Andare incontro al sole,/ Al mattino verso oriente/ La sera nel ponente».
A maggior ragione, niente metodo, nessuna tecnica preconfezionata e nessuna possibilità di teorizzare sul suo artigianalissimo mestiere per il traduttore. Si acquista sicurezza come si forma un gusto: con l’esperienza, con l’esercizio, leggendo, tentando e ritentando, cambiando e crescendo continuamente. È una prova quasi fisica, tanto più che si lavora su un autore, il cercatore di tesori e non solo di funghi, che non sta mai seduto alla scrivania per far nascere i suoi libri. E che descrive lui stesso quella facoltà della lingua, della scrittura che anche per lui, il posseduto, arriva in volo, come una sensibilità del corpo. È una sensibilità «che sta nelle spalle, sulla punta delle dita, nelle piante dei piedi», scrive Handke nella sua Giornata nell’altra terra. Che sta «nel corpo, negli interstizi di ogni tipo, nelle ossa, nei tendini, nelle vene, nelle cellule epidermiche, nelle cellule in generale, nelle articolazioni, soprattutto nelle ginocchia e nelle braccia...» ribadisce più volte, con queste e con altre parole nei diari l’indefesso camminatore per i boschi. Il bello è che anche il lettore, sì proprio tu, personaggio immancabile negli scritti di Handke, il più rispettato, è chiamato allo stesso impegno: quello di, diceva la sua Ladra di frutta, «una lettura corroborante».