il venerdì, 29 aprile 2022
Intervista a Cosima Buccoliero - su "Senza sbarre. Storia di un carcere aperto" di Cosima Buccoliero con Serena Uccello (Einaudi)
Cosima Buccoliero è nata nel 1968 a Sava, frammento dell’entroterra salentino da cui una volta si partiva solo per l’Ilva di Taranto. Lei no, niente acciaieria, e però da studentessa universitaria fuorisede finì con l’interessarsi alla gabbie delle carceri patrie. A Bologna, Giurisprudenza, quando, certo molto più appassionata in materia di diritti rispetto ai coetanei cosiddetti impegnati, evitava manifestazioni e collettivi schivando in generale distrazioni che potessero farle perdere il treno.
Si è laureata in Diritto penitenziario nel ’92 scalando poi quasi subito, al volo, le gerarchie carcerarie. Condirettrice, vice direttrice, direttrice a Milano del carcere modello di Bollate (a cui il Venerdì dedicò un reportage l’8 novembre 2019), direttrice di Opera, poi del minorile Beccaria, e oggi reggente del circondariale Lorusso e Cotugno a Torino. "Tanto impegno per migliorare, riuscendoci. Eppure, è vero, sono stata perseguitata a lungo la notte dall’incubo di entrare in galera da carcerata. Ci si deve fare pace, alla reclusione non ci si abitua mai, e forse va bene così". Cosima Buccoliero, con l’aiuto di Serena Uccello, si racconta in Senza sbarre. Storia di un carcere aperto (Einaudi), memoir di quasi trent’anni di vita, carriera, emozioni. E anche un manifesto, la convinzione che partendo dall’esistente, dal meglio, cioè soprattutto dalla mosca bianca del carcere di Bollate, si può arrivare a una riforma radicale dell’attuale sistema detentivo.
Che, punte avanzate a parte, è appunto un incubo.
"Eccellenze o no, è il carcere in generale, che è la mia vita da anni, ad avere in quanto tale un odore persistente, che ti porti a casa. È un sentore di sofferenza che ti impregna. Si dice che ci si abitua a tutto ma non è vero. La domanda, il dubbio più che l’incubo che ti perseguita la notte allora è: cosa farei io al posto loro? Chi sarei io dentro se mi togliessero i figli, se sapessi di aver perso in cella amore, parentele, amicizie? Cosa proverei nel consegnarmi mani e piedi allo Stato senza poter più disporre pienamente di me? Immaginarsi dall’altra parte, al di là delle colpe, è un peso e un dovere".
Il momento più delicato da gestire, scrive, è l’ingresso. La cella che si chiude la prima volta.
"Per quasi tutti. E però molti non si rendono conto subito di cosa stanno perdendo, di cosa accadrà loro. L’ho visto soprattutto al Beccaria, negli occhi degli adolescenti che non colgono pienamente la portata di quell’istante. Dopo, nulla sarà più come prima".
Può diventare una missione, ma dirigere un carcere è anche una vocazione?
"Non avrei mai immaginato di farlo. Anch’io anzi ero vittima del pregiudizio per cui chi ci lavora è per forza un po’ "cattivo". Ma avvicinandosi si scopre che le persone, e mi riferisco soprattutto ai detenuti, non sono il delitto che hanno commesso, così come gli operatori non possono essere giudicati per un momento di debolezza".
Il carcere visto da fuori è spesso la sua rappresentazione, fiction.
"Se parliamo di Il Re, la serie appena uscita con Luca Zingaretti, non l’ho vista e non intendo vederla. Un titolo del genere mi urta a prescindere. Mi sono ritrovata invece in molte delle suggestioni di Ariaferma, film che ha colto perfettamente la tensione sotterranea, la sottile paura della violenza celata negli istanti troppo tranquilli della vita in galera. Un mondo dove è fondamentale tenere le cose in movimento, dare dinamismo. Le anime devono scuotersi di continuo, anche perché altrimenti è impossibile assolvere al dovere di rieducare. Grandi film per me, aggiungo, sono anche Fuga da Alcatraz e Papillon. Non scherzo, sul serio. Penso che il desiderio di scappare, di liberarsi, sia sano, naturale, profondamente umano".
Scrive che le piace Cormac McCarthy, scrittore che danza spesso col male assoluto. Violenze come quelle viste nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che male sono?
"Il nostro sistema è molto fragile e lo si vede proprio in casi come questo, da non considerare certo isolati. E seppure lo fossero, sarebbero già troppi. Ma più che di un male, si tratta di una malattia. Nel senso che in condizioni al limite, a stretto contatto con la sofferenza, è più facile perdere l’equilibrio, contagiarsi, smarrirsi. Il punto fondamentale credo sia anzitutto fare in modo che il carcere, da misterioso luogo stagno, si mostri all’esterno, aprendosi e facendosi contaminare. Deve essere dentro la comunità, trasparente".
Il carcere trasparente di Bollate funziona?
"Funziona e lo dicono i dati. La recidiva di chi esce da Bollate è del 20 per cento contro l’80 per cento della media nazionale. Per adottare il modello servirebbero ovviamente investimenti importanti, ma consideriamo i risparmi. I circa 60 mila detenuti attuali costano più o meno 150 euro al giorno ciascuno".
Bollate: il ristorante gestito dai detenuti, il vivaio aperto, il laboratorio di design. Ha la fortuna di avere il benessere di Milano accanto?
"Non tutto sarebbe replicabile ma la dignità sì; i tre metri di spazio garantiti a detenuti e detenute, sì. Se qualche cosa ho imparato, è che è possibile fare con poco molto più di quanto si crede".
I maligni a volte hanno sostenuto si trattasse di un carcere per privilegiati.
"Sbagliando, perché i criteri di selezione sono perfettamente orizzontali. Conta capire chi, tra quanti fanno domanda, è davvero disposto a impegnarsi, a dare qualcosa. Non è scontato, in carcere è difficile trovare la voglia di essere generosi proprio con lo Stato che ti ha messo lì".
Ricchi e poveri, uomini e donne, italiani e stranieri. Tutti uguali anche dentro?
"Le carceri sono lo specchio di quel che siamo fuori. In questo sono già trasparenti e forse dovremmo aver paura di quel che siamo. Però, ecco: le donne sono appena il 4 per cento della popolazione carceraria".