il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2022
Da "Sono mancato all’affetto dei miei cari" di Andrea Vitali (Einaudi)
Alice, la prima figlia, era stata una disgrazia già di per sé. Voglio dire averla avuta per prima e, a tempo debito, non poterla mettere a lavorare nella ferramenta. Cioè, avrei potuto. Ma una donna in una ferramenta, secondo me, non faceva bella figura. Quindi a studiare un po’, quel giusto. Tanto per tirarla grande, se no cosa stava lí a fare? Tra le scuole, le magistrali: quattro anni e via. Sennonché, una volta finito, s’era ficcata in testa di andare avanti, l’università. Voleva fare la professoressa. Forse pensava di essere nata nel paese del Bengodi, dove i soldi crescono nell’orto. Chi troppo studia matto diventa, era stata la mia risposta. Lo diceva sempre anche un mio zio che non aveva mai aperto un libro in vita sua e camminava ancora sulle sue gambe. Lo zio Pietro, il Píter, un’ostia di uno! Sputava sempre per terra. Nell’ospizio dove l’avevano ficcato, le suore, per punizione, gli portavano via il toscano. Ma lui ne aveva sempre un altro di scorta, perché li nascondeva dappertutto, anche nelle mutande. Comunque, per tornare al discorso, il bel guadagno di studiare era stato lí da vedere quando l’Alice aveva cominciato con le supplenze, roba da non sapere se fosse meglio ridere o piangere. Una settimana qua, quattro giorni là, il portafoglio del papà che si apriva e chiudeva come una fisarmonica perché, a quanto pareva, un impiego nello Stato doveva essere una specie di onore, tanto per mangiare e bere c’era sempre quello che vendeva chiodi, viti e compagnia ferruginosa, se no come campava la maestrina del villaggio? Sapevo io quello che ci voleva, matrimonio. I libri mica scappavano. Una volta sposata, con una casa tutta sua e un marito che la mantenesse, l’Alice poteva leggere tutti i libri che voleva: giusto o sbagliato? Però doveva essere un bel matrimonio. E alla fine l’aveva capito anche lei, la cavallina storna. Aveva capito che, finché fosse andata in giro per scuole, non avrebbe tirato a casa nient’altro che morti di fame. Uno me lo aveva addirittura portato a tavola. Era stata una bella sorpresina. Di solito salivo dalla ferramenta per pranzo, dodici e mezza, anche l’una, con una fame che avrei mangiato pure le gambe del tavolo. Poi mi piaceva schiacciare un pisolino, mezz’oretta sul divano. Entro in casa ed eccoli lì, seduti proprio sul mio divano. Lui era uno magro impicco, che si era dimenticato di avere il cappello sulla testa e si guardava in giro con uno sguardo da cavedano in agonia come se venisse dal paese dei mao mao. O forse non aveva mai visto la casa di uno che i soldi li faceva ballare anche se non apriva piú un libro dagli anni della dottrinetta. L’Alice era un po’ rossa in viso, aveva la tosse dell’imbarazzo; gli aveva tolto il cappello e poi mi aveva spiegato. Cioè che il pesce seduto sul divano vicino a lei aveva perso il treno per tornare a casa e lei lo aveva invitato a pranzo (…). Avevo fatto segno di sí senza parlare, perché se avessi seguito l’istinto avrei detto al mao mao di non pensarci nemmeno per un attimo. Giù le mani dall’Alice! Si vedeva chiaro come il sole che il maestrino non vedeva l’ora di attaccare il suo cappello da qualche parte. Continuava a scrutare in giro come se la casa, i quadri di paesaggi, i mobili fossero roba da mangiare (…) Se pensava di non darlo a intendere, che stava facendo i conti di quanto rendesse l’esercizio, sbagliava di grosso. Non si insegna ai gatti ad arrampicarsi! Si dice cosí, no? In conclusione: non sai come riempirti lo stomaco? Mangia i libri! Hai voluto fare il maestro? Libero, liberissimo, ma giú le mani dall’Alice. Però da quello che il maestrino col cappello aveva mangiato era chiaro che i libri non riempivano mica tanto. Poi, prima di andare a prendere il treno, che sennò magari mi toccava tenerlo lí anche per cena, aveva detto arrivederci. Ar-ri-ve-der-ci! Ci avevo sentito bene? Insomma, non c’era tempo da perdere, ci voleva un bel discorsetto. Ero fatto così, quello che avevo sullo stomaco lo avevo anche sulla lingua (…). All’Alice l’avevo detto la stessa sera: uno come quello che aveva portato in casa al massimo poteva lavorare nel magazzino della ferramenta. E senza il cappello! Forse ero stato un po’ brusco, ma si sa, la stanchezza a fine giornata… Per tutta risposta l’Alice s’era messa a piangere, mugugnando che dovevo smetterla. Ma non avevo ancora finito. E allora era intervenuta la cavalleria, mia moglie. Io, però, Te sta’ zitta! Perché non volevo morti di fame da mantenere. E siccome tra quella che piangeva e l’altra che continuava a ripetermi di smetterla mi si stava oscurando la vista, avevo chiuso il discorsetto dicendo all’Alice che se non le stava bene quello che dicevo era libera di fare come voleva, la porta di casa era sempre lí, serviva per uscire. Per entrare invece bisognava chiedere il permesso. Capito il concetto? Altro che arrivederci! Arrivederci…