Dizionario biografico degli italiani, 2 maggio 2022
Biografia di Pietro Bastogi
BASTOGI, Pietro. – Nacque a Livorno il 15 marzo 1808 da Michelangelo, appartenente a una famiglia di commercianti originaria di Civitavecchia; fece i suoi primi studi nell’Istituto dei padri barnabiti dove conobbe E. Mayer, stringendo con questo una amicizia che resistette al tempo e ai contrasti politici. Giovanissimo, fu cassiere dell’Associazione mazziniana livornese e fece opera di proselitismo nella vicina città di Pisa: lo ricorda il Mazzini in alcune pagine della sua autobiografia (Note autobiografiche, Firenze 1944, p. 127), e ne accennano il Montanelli (Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, Torino 1853, I, p. 32) e G. Sforza, contemporaneo del banchiere livornese (Memorie storiche della città di Pisa dal 1838 al 1871, Pisa 1871, p. 25).
Non è facile determinare l’anno in cui il B. conobbe il Mazzini: nei carteggi di questo e di altri patrioti dei tempo rare volte compare il nome del Bastogi. Il Linaker, che si è occupato dei rapporti fra il Mazzini e il Mayer (La vita e i tempi di E. Mayer, I, Firenze 1898, pp. 23-29), accenna al viaggio che quello fece in Toscana per completare il disegno della cosiddetta “Eteria greca” e accenna anche ad un incontro avvenuto a Livorno fra Mazzini, Bini, il B. e Guerrazzi. Dalla stessa fonte sappiamo che nel 1834 il B. raggiunse a Londra il Mayer, che l’anno precedente era stato a Genova e a Marsiglia, dove aveva preso contatti col Mazzini. A Londra il Mayer e il B. si occuparono del problema degli esuli politici che vivevano allora in gravi ristrettezze econorniche. Sempre nel 1834 il Mayer, il B. e il Castiglione acquistarono per la città di Livorno i preziosi volumi manoscritti del Foscolo (oggi nella Biblioteca Labronica) dal canonico Miguel Riego, che aveva assistito il poeta al momento della morte.
PUBBLICITÀIl B. fu anche in rapporti di amicizia col Guerrazzi e si adoperò presso l’editore Baudry di Parigi per la stampa dell’Assedio di Firenze. Il Mazzini ricorse più volte al 13. come ad amico, al quale l’affetto e la stima reciproca consentono anche di chiedere l’aiuto materiale nel momento del bisogno. Ma negli anni successivi l’amicizia fra il B. e il Mayer da una parte, e il Mazzini dall’altra, cominciò ad oscurarsi, come si può rilevare dalle lettere di questo ai suoi collaboratori toscani, contenenti accenni alla fede tradita, all’impossibilità di lottare disuniti per il bene della patria comune. La stima reciproca non venne però mai meno, tanto che nel 1844 il Mazzini, pubblicando a Lugano una raccolta di scritti politici del Foscolo, vi appose una dedica a Gino Capponi, a Enrico Mayer e a Pietro Bastogi.
Ma il B. fu soprattutto un uomo d’affari. Discendente da famiglia di mercanti arricchiti col commercio delle spezie e dei coloniali durante il blocco continentale, egli rappresenta l’elemento di rottura rispetto alle tradizioni familiari, contribuendo in maniera decisiva a spostare il centro delle attività della ditta patema dal settore degli investimenti commerciali e marittimi a quello assai più delicato e complesso degli investimenti creditizi e finanziari nel campo pubblico e privato.
L’ascesa della casa Bastogi inizia prepotentemente nel 1840, quando l’antica ditta livornese “Giamari e Bastogi” muta la sua ragione sociale in quella di “Michelangelo Bastogi e figlio”, diventando anche banca privata, specializzata nelle operazioni di sconto e di arbitraggio. Con il progredire degli affari stimolati, oltre che dalle capacità imprenditoriali dei giovane Pietro, dal favorevole andamento della congiuntura (sviluppo della navigazione a vapore in tutto il Mediterraneo e dei fenomeni connessi alla conseguente rivoluzione dei traffici), la nuova casa bancaria estese rapidamente la sua influenza in tutto lo Stato, collegandosi con le grandi case straniere che investivano capitali in Italia, come la Rothschild di Parigi. Ma soltanto nel 1847compì la sua prima grande operazione con le finanze granducali. Il governo di Leopoldo II, anche aseguito della grave crisi economica che aveva travagliato il continente europeo nel 1845-47, si trovava in gravi difficoltà finanziarie: fu così costretto a ricorrere, come di consueto, al credito delle grandi banche private. Dopo trattative avviate con diverse ditte, il ministro delle Finanze mutuò da casa Bastogi dodici milioni di lire, dando a copertura del rimborso il reddito dell’allora fiorente “Azienda delle miniere e fonderie”, che lavorava per conto dei governo il ferro di Follonica.
La Bastogi entrava così nel novero delle grandi case bancarie, mettendo quasi le mani sul complesso per la produzione e la lavorazione del ferro meglio attrezzato dell’Italia centrale, nel momento stesso in cui la febbre delle grandi costruzioni ferroviarie, fenomeno caratteristico della vita economica europea negli anni centrali del secolo, investiva l’intera penisola.
Il B., che già nel maggio 1847, in occasione del pranzo offerto a Riccardo Cobden ai Casini dell’Ardenza, aveva difeso, qualeesponente del gruppo moderato, la libertà economica, era entrato come deputato nel parlamento toscano dopo la concessione della costituzione, il 17 febbr. 1848. Il 20 luglio, come relatore della commissione incaricata di studiare l’organizzazione dei volontari toscani per la guerra in Lombardia, egli cercò di compiere, con alcune modifiche al progetto Serristori, opera di conciliazione tra moderati e democratici guerrazziani. Egli però si andava sempre più orientando in senso conservatore. La crisi politica del 1848-49, infatti, rallentando il ritmo dello sviluppo economico, ebbe per effetto conclusivo, in Toscana come in altri Stati, di riavvicinare il mondo degli affari alle cadute dinastie, sul piano della conservazione sociale e della restaurazione dell’ordine. Il B. scelse quel momento per prendere apertamente posizione contro la politica finanziaria del governo democratico.
Con un opuscolo intitolato Della carta moneta e dei suoi effetti in Toscana (Pisa 1849), apparso poco dopo la drammatica esposizione sulle condizioni dell’erario fatta dal ministro Adami nella tornata del 16 genn. 1849, si scagliò violentemente contro i provvedimenti proposti dal ministero.
Calcolato il deficit in circa quattordici milioni di lire e potendo contare su appena quattro milioni d’entrata, l’Adanù, scartando gli aumenti d’imposta, i prestiti pubblici o forzosi, si faceva a proporre l’emissione di quattordici milioni di carta moneta, garantiti da una corrispondente alienazione di beni nazionali. Tali “buoni fruttiferi del Tesoro a corso coatto con privilegio ipotecario sui beni dello Stato” sarebbero stati immessi in circolazione entro diciotto mesi ed avrebbero consentito allo Stato di far fronte a tutti gli impegni. Contro l’incubo della carta moneta, espediente comune alle finanze di molti governi rivoluzionari, si schierò il B., sostenendo che in un paese come la Toscana, dove la circolazione metallica ammontava appena a quarantacinque milioni di lire, una iniezione cartacea pari a quattordici milioni avrebbe provocato l’inflazione e l’esportazione dei numerario all’estero. Allacorrettezza teorica del ragionamento aggiunse espressioni roventi a difesa del diritto di proprietà, attaccando chi, “coprendosi il capo con il berretto frigio, o indossando la toga dei cittadino, osa sfacciatamente usurpare il nome di libertà”. A queste accuse rispose ancora più veementemente il ministro dell’Intemo, F. D. Guerrazzi, il quale, nella seduta del 25 genn. 1849, non esitò a denunciare alla Camera l’equivoco comportamento di chi “ha mandato fuori i suoi danari per non sopperire ai bisogni della patria”.
Fallito l’esperimento democratico e tornata la dinastia degli Asburgo Lorena, la collaborazione del B. col governo liberal-conservatore e gli ambienti di corte al tempo del governo Baldasseroni si fece sempre più stretta e feconda. Finanziatore del governo granducale e contemporaneamente azionista delle più grandi società operanti in Tosdana, si meritò il soprannome di “banchiere del granduca”. Approfittò della notevole influenza acquisita per rafforzare la sua posizione nei confronti deiprincipali gruppi finanziari del paese. Fattosi nominare: presidente della Camera di commercio di Livorno, ebbe anche parte di rilievo nella fusione dell’istituto di ernissione di quella città con la Banca di Firenze. Della nuova e importante Banca nazionale toscana fu, oltre che forte azionista, membro ascoltato del consiglio di amministrazione.
Nella crisi unitaria del 1859-1861 appoggiò finanziariamente la costituzione dei primi reparti di volontari e dopo la caduta del governo granducale fu chiamato a far parte della consulta di governo di cui era presidente G. Capponi e segretario L. Galeotti. L’occasione di affermarsi tra le personalità del gruppo moderato toscano gli fu data dopo che, fal-, lite le trattative intavolate dal ministro delle Finanze Busacca con i rappresentanti della Banca Fenzi e di altre grandi banche private, per la stipulazione di un mutuo a favore dell’erario, venne uffliciòsamente incaricato dal governo Ricasoli di assumere il negoziato, ricorrendo al capitale straniero.
Recatosi a Torino nell’ottobre del 1859 – dove conquistò la stima del Cavour – non riuscì ad ottenere dal ministro delle Finanze G. B. Oytana un prestito di cinquanta milioni di lire; passato a Parigi, trova va venti milioni trattando direttamente con i Rothschild. L’operazione veniva quindi effettuata con la garanzia del governo piemontese, il quale, mediante l’alienazione di due milioni di titoli della rendita pubblica, si faceva garante del pagamento degli interessi.
Tornato Cavour al potere e indette le elezioni per la VII legislatura, che dovevano consentire ai rappresentanti della Lombardia e dell’Italia centrale di eritrare al Parlamento, il B. venne eletto deputato il 29 marzo 1860 per i collegi di Cascina e Montepulciano.
Esponente autorevole del gruppo parlamentare capeggiato dal Ricasoli, prese la parola per la prima volta nella tornata del 28 giugno 1860, durante il dibattito sul progetto di legge per un prestito di centocinquanta milioni di lire presentato dal ministro delle Finanze Vegezzi per colmare le spese di guerra e di unificazione dei nuovi territori annessi. Appoggiando il disegno ministeriale -che era poi quello di Cavour – insistette sulla urgenza di adottare, contemporaneamente alle misure di risanamento finanziario, un programma di sviluppo delle opere pubbliche e delle infrastrutture civili per consentire l’incremento dei, traffici e l’accrescimento della ricchezza nazionale. Con questa ampia visione economica, oltre che finanziaria, dell’avvenire del paese, poneva la sua candidatura alla successione del Vegezzi.
Rieletto il 3 febbr. 1861 per l’VIII legislatura, la prima del Regno d’Italia, veniva chiamato dal Cavour, ai primi di aprile dello stesso anno, a fare parte del govemo, quale titolare del dicastero delle Finanze.
Il processo di riordinamento e di unificazione dei vari sistemi tributari e finanziari degli antichi Stati italiani assorbì quasi completamente l’operosità del B., che conservò il portafogli delle Finanze anche dopo la scomparsa prematura del Cavour. Furono mesi in cui vennero definite le grandi linee dell’ordinamento e delle istituzioni finanziarie del Regno e si fissarono i criteri direttivi della nuova politica finanziaria.
Il B. esordì alla Camera con la celebre esposizione finanziaria del 29 apr. 1861, sottolineando l’esigenza di raggiungere al più presto il pareggio, mediante economie sulle voci della spesa pubblica, l’aumento del gettito tributario e il ricorso straordinario al credito estero ed interno per l’importo di 500 milioni; in quell’occasione propose anche l’istituzione del Gran Libro del debito pubblico. Per quanto siano evidenti le analogie tra questi obiettivi di politica finanziaria con quelli perseguiti da Cavour nel decennio di preparazione, occorre sottolineare il carattere nettamente più conservatore della gestione finanziaria del B., che andò accentuandosi con l’avvento al potere del Ricasoli. In questo senso il B. può considerarsi l’iniziatore della politica economico-finanziaria della destra storica, diretta prevalentemente alla edificazione delle strutture amministrative e militari dello Stato, ma caratterizzata dalle econornie realizzate falcidiando i bilanci dei dicasteri sociali, e, sul piano delle entrate, con l’accentuazione della fiscalità indiretta e la negoziazione dei titoli pubblici.
Caduto il Ricasoli (3 marzo 1862), il B. venne travolto assieme a tutto il gruppo toscano, rimanendo semplice deputato. Fu questa la circostanza che lo restituì agli affari, ora che il superamento delle divisioni regionali e la nuova politica dei lavori pubblici dischiudevano nuove ed affascinanti possibilità operative ai grandi gruppi privati.
L’assalto alle concessioni ferroviarie era stato condotto principalmente dai Rothschild, i quali, controllando largamente il movimento dei capitali francesi, erano riusciti finora ad impedire che società rivali assumessero gli appalti di costruzione e di esercizio per la realizzazione della rete ferroviaria italiana. Obiettivo di casa Rothschild era di ottenere la concessione per le reti centro meridionali, allo scopo di collegarle con quelle della Lombardia, del Veneto e dell’Austria meridionale, che dominava in proprio o sotto altro nome. A questo scopo, erano riusciti a far fallire la costituzione della società mista RothschildTalabot e Salamanca-De la Hante, la quale, avendo ottenuto dal governo italiano il rinnovo della convenzione passata con il Regno delle Due Sicilie e gli Stati della Chiesa, doveva entro un anno, secondo l’impegno formalmente assunto, procedere all’inizio dei lavori. Quindi, nel tentativo di assicurarsi da soli l’affare, i Rothschild presentavano al governo italiano, che accettava, un nuovo progetto di convenzione per, cui, rinnovata la concessione delle linee lombarde ed emifiane fino ad Ancona, si assegnava loro il completamento della linea adriatica e il suo allacciamento con Napoli (16 giugno 1862).
L’opposizione degli uffici della Camera, ai quali la proposta era stata trasmessa d’urgenza, fu vivissima, sostenendosi che politicamente ed economicamente lo Stato non aveva alcun interesse ad affidare la quasi totalità della rete ferroviaria del paese ad una sola e potentissima società straniera, legata per di più allo sviluppo delle ferrovie austriache.
Trattative condotte dall’on. ing. Susani a Londra e a Parigi per provocare la concorrenza e suscitare altre offerte non avevano sortito alcun esito.
Il 31 luglio 1862, mentre era appena iniziata alla Camera la discussione sulla convenzione proposta dai Rothschild-Talabot, il B. inviava al ministro dei Lavori pubblici una lettera nella quale dichiarava che un gruppo di capitalisti, tutti italiani, era pronto a versare un capitale di cento milioni di lire per costituire una grande società per la costruzione e l’esercizio di ferrovie nell’Italia centro-meridionale. La proposta, fatta conoscere immediatamente alla stampa e ai due rami del parlamento, fece grande sensazione. Invano il presidente del consiglio Rattazzi e il ministro dei Lavori pubblici Depretis difesero la validità della convenzione stipulata con i Rothschild e che necessitava della sola sanzione parlamentare. La Camera, nelle tornate del 3, 4, 5 e 6 ag. 1862, respingendo il progetto governativo, approvava la proposta del B.: era l’atto di nascita della “Società italiana per le strade ferrate meridionali” (1862-1937), la prima grande impresa del nascente capitalismo italiano.
La convenzione consisteva nell’affidare alla nuova società la concessione della costruzione e dell’esercizio delle stesse linee alle condizioni concordate con i Rothschild. Il capitale della stessa, suddiviso in duecentomila azioni da cinquecento lire, fu immediatamente ripartito fra le grandi case bancarie dell’Italia centro-settentrionale, sottoscrivendo Torino per 50.000 azioni, Milano per 47.200, Livorno per 40.900, Genova per 9.000, ed il resto fra Alessandria, Brescia, Firenze, Modena e Venezia, con quote non superiori alle 2.000 azioni. Fra i maggiori azionisti si contavano il B. (35.000 azioni) e la Cassa dei commercio e dell’industria di Torino, rappresentata da D. Balduino (21.000 azioni), dietro al quale era schierato il più forte gruppo antagonista dei Rothschild., capeggiato dai fratelli Pereire.
I lavori di costruzione cominciarono subito e la Società riuscì, con grandi sforzi e nonostante una virulenta campagna di discredito impostata dagli avversari, a mantenere scrupolosamente fede agli impegni: entro il 1865 ultimò la Ancona-Brindisi e la Foggia-Napoli, due delle principali arterie del sistema meridionale.
Le accuse di corruzione e di affarismo, fomentate da rivali e riprese dai giornali dell’opposizione risuonarono anche in Parlamento. A seguito della petizione Mordini (21 maggio 1864) la Camera nominò una commissione d’inchiesta, di cui fu eletto presidente G. Lanza, per indagare sui retroscena dell’affare delle “Meridionali”. Le conclusioni della commissione, comunicate in aula il 15 giugno 1864, furono di condanna per il B. e specialmente per il Susani.
La commissione dichiarò non del tutto infondate le accuse di irregolarità circa il procedimento seguito dalla Camera quando nell’agosto del 1862 si era sostituita al governo nel proporre ed approvare per acclamazione un contratto con destinatari diversi da quelli indicati dal ministero; dal punto di vista del costume politico confermò l’accusa che il Susani, membro della commissione parlamentare che aveva respinto la convenzione coni Rothschild, avesse ricevuto dal B. un compenso di un milione e centomila lire. Accertò che il B. si era fatto rilasciare da tutti i sottoscrittori una dichiarazione con cui gli cedevano l’appalto generale della esecuzione dei lavori al prezzo di 210.000 lire al chilometro, e che questi li aveva subappaltati a tre importanti ditte alla tariffa di 198.000 lire al chilometro; due terzi di questo margine di 14 milioni di lire sarebbero stati incassati dal B. stesso. Lo scandalo costrinse il B. a ritirarsi dalla politica attiva ed il Susani a rassegnare le proprie dimissioni.
Eletto il 24 maggio 1868 nel collegio di Campobasso, il B. rifiutò l’incarico, che accettò due anni dopo nelle elezioni del 27 nov. 1870. Parte attiva, sia pur di secondo piano, egli ebbe ancora contribuendo alla caduta della destra storica, quando il gruppo toscano si schierò contro il governo alla vigilia del voto parlamentare del 18 marzo 1876, perché contrano alla progettata riforma doganale e soprattutto alla nuova politica ferroviaria, tendente a sostituire l’esercizio privato delle reti con quello governativo.
Sebbene rieletto per la XII legislatura (1876-1880) e successivamente nominato senatore (4 dic. 1890), il B. si disinteressò sempre più dei lavori parlamentari dedicando il resto della sua vita agli affari. Si prodigò per la organizzazione degli studi economici. Dopo che i seguaci del Wagner diedero vita a Milano, nel 1875, alla Associazione per il progresso degli studi economici, il cui organo di stampa fu il Giornale degli economisti, si adoperò, assieme al Peruzzi e ad altri, perché si costituisse in Firenze l’Associazione Adamo Smith che stampò il settimanale L’Economista, cui collaborarono assiduamente T. Martello e F. Ferrara.
Il B. ebbe anche interessi eruditi: raccolse infatti circa 50 mila autografi, oggi conservati nella Biblioteca Labronica di Livorno, utili fra l’altro per la storia letteraria italiana dell’800.
Morì a Firenze il 21 febbr. 1899. Era stato insignito del titolo di conte.
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