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 2022  maggio 01 Domenica calendario

Biografia di Raoul Bova raccontata da lui stesso

Se sbagliano il suo nome porge l’altra guancia: “Ogni tanto dimenticano la ‘o’, ma non fa niente”. Alla definizione “bonazzo” resta in silenzio, in surplace tra decenni di gloria e la sua visione attuale: “Oramai ho cinquant’anni”. Di storie d’amore reali, presunte, affibbiate o sospettate non parla, “neanche con gli amici”. Sempre zitto, le confessa solo a se stesso.
Insomma, Raoul Bova è già perfetto per il suo arrivo in tonaca nella regina delle fiction Rai, Don Matteo, che anche giovedì ha segnato il record di ascolti con oltre sei milioni e mezzo di spettatori.
In carriera quante “divise” ha indossato?
Polizia, carabinieri, esercito, prete…
Finanza?
Manca. Ah, pure da vigile urbano nel film di Luchetti con Elio Germano.
Elio Germano è uno degli attori più bravi?
Ce ne sono tanti validi, spesso dipende dal film, dal rapporto con il regista, con la storia o con il personaggio.
Lei dove si inserisce?
No, no.
No, cosa?
Io sto tra gli ultimi, sono un dipendente, uno dei tanti che mette il cuore.
È il momento umiltà.
(Ride) Non mi sono mai voluto paragonare, però non ho mai invidiato nessuno, sono andato avanti nella mia gara.
Sono trent’anni dall’esordio con Mutande pazze.
È stata la mia prima parte parlata, dopo una serie di comparsate.
Ruolo?
Barman, e davanti avevo Eva Grimaldi.
E su quel set ha pensato…
E che pensavo? Ero timido e impacciato, con la Grimaldi che mi seduceva mentre stavo dietro al bancone; (sorride) come impatto è stato abbastanza forte.
In trent’anni quante scene di seduzione ha subito?
Subito? Addirittura.
Ha partecipato.
Sono tante.
Paola Cortellesi ha dichiarato al Fatto: “Non mi sono mai goduta le scene d’amore, neanche quella con Bova”.
(Ride, molto) Con Paola è stata una tragedia: siamo talmente amici che ci veniva da ridere; a volte ti ritrovi a girare scene con persone che conosci così bene da non riuscire a mettere il giusto distacco.
E poi?
Ti fai il discorsetto, riporti tutto al lavoro e cerchi di non ridere.
La Incontrada ama le scene d’amore…
(Ride)Io no, e no. Eppoi sono assolutamente imbarazzanti, con la folla sul set e tu che devi inerpicarti in pose plastiche per favorire le riprese del partner. È tutto telecomandato, non è il mio genere di erotismo.
Meglio indossare la tonaca e diventare prete?
(Sorride) È un passaggio spirituale, un modo differente per mettersi a nudo.
Ora in giro le chiederanno la benedizione.
Sicuramente il pubblico ci conosce per quello che vede in televisione e ogni tanto scambia l’attore con il personaggio, ma è la dimostrazione di aver svolto bene il proprio lavoro.
Entrare nel cast di Don Matteo è come andare al Festival di Sanremo.
Quando c’è una serie che funziona è importante cercare qualche derivazione per andare avanti, per mantenere l’interesse alto: gli inserimenti ti permettono di percorrere strade nuove. Per quanto riguarda l’attore, al di là del rispetto per gli altri, è fondamentale non voler prendere il posto di nessuno, tanto meno rubarlo.
Ci mancherebbe…
Grazie a Dio nella mia vita il lavoro è sempre arrivato in maniera costante.
Ha un curriculum vasto.
(Ride) Allora sono vecchio.
Non dica così.
Comunque lavorare in Don Matteo mi incuriosiva e il mio personaggio è interessante.
Di serie se ne intende.
In pochi lo ricordano, ma ho girato pure La piovra.
Dalla settima stagione.
Fino alla decima; (pausa) ero veramente un ragazzino, arrivato in un contenitore dove prima di me c’erano stati Michele Placido e Vittoria Mezzogiorno. Eppure fu un grande successo e mi ha aiutato a uscire dall’Italia, un po’ come le commedie.
Rivendica tutte le commedie girate?
E perché no? Mi sono divertito sempre; poi, magari, alcune cose ti mettono in imbarazzo, ma le superi, fa parte del lavoro.
Sempre?
In Nessuno mi può giudicare interpretavo un romanaccio incredibile; in una scena con Rocco Papaleo ci insultavamo di brutto, con Massimiliano Bruno (il regista, ndr) che mi incitava a caricare; ogni volta che la rivedo mi domando come io abbia fatto a girarla.
Dopo trent’anni la chiamano “maestro”?
Al massimo per prendermi per il culo o per l’età.
Ha molta esperienza.
Da quando mi hanno coinvolto nelle masterclass o nelle classi di recitazione ho capito di essere diventato adulto.
E…
Mi sono chiesto cosa posso trasmettere, ho sempre la sensazione di dover imparare tanto: ancora non mi sento in grado di dare consigli; (pausa) in questa professione ci sono troppe variabili per poter offrire certezze.
Qual è la prima regola del bravo attore?
Tenere i piedi per terra, osservare la realtà, non sentirsi arrivati.
Vale un po’ per tutti.
Per gli attori di più; e poi noi abbiamo il privilegio di soddisfare i “se fossi stato”.
Tradotto?
Tutti ci domandiamo “se fossi diventato” questo o quello, e in qualche modo l’attore può evadere quella curiosità.
Da ragazzo cosa rispondeva?
Allenatore di nuoto.
Ha mai sentito l’invidia maschile?
No, anzi. Sono un uomo al quale si può presentare la propria fidanzata o moglie.
Ha la sindrome dell’impostore?
Qual è?
Non sentirsi così ferrati come gli altri credono.
Impostore è brutto.
Si definisce così.
Allora ci nasco e la combatto da sempre; ho fatto di tutto per eliminarla.
Non ha frequentato l’Accademia: accentua la sindrome?
Evidenzia la differenza con altri attori e da una parte sono contento.
Perché?
A volte chi esce dall’Accademia perde in naturalezza; dall’altra parte mi pento, perché la tecnica in alcuni casi aiuta; comunque ho frequentato corsi importanti negli Stati Uniti, compreso l’Actors studio.
Noi provinciali italiani cosa le chiediamo sempre della sua esperienza hollywoodiana?
(Prende tempo e ripete la domanda) Di Madonna, com’è lei, poi di Alien vs. Predator e di Diane Lane; all’epoca di Sotto il sole della Toscana quando giravo per gli Stati Uniti, mi chiamavano Marcello (il nome del personaggio).
E com’è Madonna?
Una star. Una vera star. È come uno la può immaginare.
Con lei ci ha provato?
No, noooo. Non risponderò, non sono cose che si dicono.
Allora ci ha provato.
Non ho mai raccontato le mie relazioni, neanche agli amici.
Se non parla con gli amici, figuriamoci con i giornalisti.
Ho sempre rispettato la mia parte intima.
Gli altri l’hanno rispettata?
(Sospira) Quando sei un personaggio pubblico resta poca intimità, quella poca ho cercato di salvaguardarla; (pausa) a chi ha provato ad attaccarla ho risposto con il silenzio.
Questo aspetto all’inizio della carriera lo aveva messo nel conto?
No.
E pensava fosse così?
Neanche. Quando l’ho capito ci sono stati momenti difficili, poi comprendi che ci sono altre strade per la tua intimità.
Qual è il miglior aspetto della fama?
Il sorriso delle persone quando ti incontrano.
Qui siamo al romanticismo più totale.
Ma è vero. È bello scambiarsi il buongiorno.
È mai stato scambiato per un collega?
In che senso?
Battiston e Fresi vengono confusi.
Non saprei. (Dispiaciuto chiede a un amico: “Assomiglio a qualcuno?”) Al massimo si sono confusi per un film; (ride) una volta uno mi ha fermato, riempito di complimenti, io ringraziavo, fino a quando ha concluso: “Nella fiction della Uno bianca sei stato fenomenale”. Peccato che fosse Kim (Rossi Stuart, ndr).
Con Argentero e Gassmann rientra nella triade dei bonazzi.
“Bonazzi” è un parolone, da lei non me lo sarei mai aspettato.
È grave?
A cinquant’anni venir ancora definito “bonazzo” mi stupisce e fa contento; (pausa) fa parte di qualche anno fa, quando ero un ragazzo aitante.
Lo è ancora.
No, 50 sono 50 e in viso ho qualche cartina geografica e sul corpo qualche linea in più.
Cederà al botox?
Meglio di no, blocca le espressioni, per un attore non è un granché: piangi o ridi hai sempre lo stesso viso; però non sono contrario.
Le sue colleghe la paragonano a Gassmann e Argentero, ma su di lei aggiungono che è troppo buono…
Per questo gli uomini mi sono amici: non sono mai stato il bello e dannato, quello che ispira… cose… (attimi di sospensione)
Vuol dire “sesso”?
Eh, esatto. Sono bello e amico.
La Guerritore si è lamentata: sul set de La lupa, nelle scene di sesso, Gabriele Lavia non era geloso.
No, anzi, mi spingeva ad andare oltre, mi tranquillizzava quando io ero terrorizzato.
Stavano insieme…
E da regista urlava: “È una scena, devi farlo!”. E io: “Va bene, mi impegnerò”.
Qualche regista l’ha mai imbarazzata?
Cosa vuol dire?
Intimorito.
Sul piano artistico? Certo, ma l’approccio è reverenziale.
Con chi?
Luchetti, Zaccaro, Giraldi e Ozpetek, sapevo quanto sono esigenti.
Per Dario Fo rubare è da geni, copiare da coglioni. A chi ha rubato?
Quindi non mi dà del coglione?
No.
Questo è un buon punto di partenza; ho rubato con gli occhi a tutti quelli con cui ho lavorato, come Giancarlo Giannini, Sophia Loren e Lina Wertmuller; anche Lina incuteva un certo timore; Sophia mi ha insegnato molto.
Cosa?
Il rapporto con l’America; un giorno mi disse: “Vai negli Stati Uniti, ma non ti presentare con la coda tra le gambe: sei un italiano, vai con lo sguardo alto, non ti sottomettere. Fatti trattare per quello che vali, se elemosini è finita”.
La Wertmuller urlava sul set?
Diciamo che era focosa. Ma sapeva ottenere il massimo.
Ha mai abbandonato un set perché furioso?
No, mi sono allontanato per respirare. Ma non dirò in quale.
Lei figlio dei Settanta, meglio Fenech o Bouchet.
Oddio, la Fenech.
Duran Duran o Spandau Ballet?
Eh… Duran
Piumino della Moncler o Millet?
Non avevo nessuno dei due: eravamo tre figli, non si potevano affrontare certe spese; a un certo punto entrò in casa un Moncler, grazie a un regalo del fidanzato a mia sorella, e ogni tento lo fregavo.
Non era un paninaro.
Sull’abbigliamento possedevo solo le sottomarche.
Il primo sfizio con i soldi guadagnati?
Sono riuscito a soddisfare un sogno di mamma e papà.
E non dirà quale…
(Ci pensa) No… (ci ripensa) non abbiamo mai avuto una casa di proprietà, per me è stata una grande soddisfazione… Però ho dato solo un anticipo, poi abbiamo aperto un mutuo.
Chi è lei?
Boh, non lo so. Ancora devo trovare la definizione. Ci sentiamo verso i miei 70 anni?