Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  maggio 01 Domenica calendario

Intervista a Umberto Galimberti

Non è vero che la felicità è un momento, anche se lo diciamo tutti, con il sollievo mesto delle mezze vie, delle spiegazioni assolutorie. Non è vero che è un caso, che non richiede sforzo, che è una specie di grazia, un fatto di predestinazione.
È felice chi fa ciò per cui è nato: chi trova il proprio dàimon (il demone), il fuoco che l’accende, e lo realizza secondo misura, senza farsene sopraffare, rispettando i propri limiti. Così pensavano i greci e, come loro, Umberto Galimberti, che della disciplina necessaria alla ricerca di quel demone, il conoscersi, ha fatto uno dei punti cruciali del suo pensiero, della sua vita. Domani compirà ottant’anni, è tra i filosofi e psicanalisti italiani più noti del nostro tempo, ha scritto decine di libri, il primo quando era ancora un professore di filosofia di liceo, aveva ventisei anni, era il 1975. Si intitolava Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’occidente, era lungo ottocento pagine.
Lo chiamo per dirgli che vorrei intervistarlo, ride e mi domanda se il mio sia un «tentativo di necrologio anticipato». Finisce o comincia quasi tutte le risposte alle mie domande così: «Io sono greco, capisce perché sono greco?».
Se sa definirsi, significa che si conosce, e se si conosce, significa che è felice.
«Le dico chi sono: non un grande pensatore, ma uno che sa fare delle belle sintesi di pensieri che già esistono. Ero nato per questo? Credo proprio di sì. E allora sì, per come i greci intendevano la felicità, sono stato e sono felice».
Si è mai sentito smarrito?
«Mai. Proprio mai. Lo smarrimento nasce quando non raggiungi un obiettivo che ti proponi, e allora perdi la meta. Non ho mai desiderato niente: ho detto di sì alle offerte della vita. Quando mi sono laureato, sono andato a insegnare al liceo. Quando, dopo 15 anni, mi sono reso conto che io invecchiavo ma gli studenti avevano sempre la stessa età, sono andato da Emanuele Severino, il mio maestro, e gli ho chiesto se ci fosse posto per me in università. Ho fatto un concorso, l’ho vinto, ho cominciato ed è diventata la mia vita, senza che ci avessi puntato».
Ma non viviamo per uno scopo, per un obiettivo?
«Viviamo per un senso, e la domanda di senso si è molto accentuata in questi anni: lo abbiamo confuso con lo scopo, che è ciò a cui l’era della tecnica, il nostro tempo, ci impone di mirare. E così diventiamo dei funzionari di apparato, dimentichiamo la nostra parte irrazionale, e tutto ciò che irrora: l’amore, la fantasia, il dolore, tutte cose che per la tecnica sono pericolose, e che però sostanziano l’essere umano».
Non vede un tentativo sempre più forte di smarcarsi da quella vita da funzionari?
«Può darsi, ma accade spesso per rassegnazione. Il futuro non è più una promessa: è diventato una minaccia o, se vogliamo essere più gentili, qualcosa di imprevedibile: non retroagisce più con la motivazione. Ecco perché tanti ragazzi si domandano: perché mai dovrei studiare? A che serve? Sono convinto che quelli che si drogano lo facciano per anestetizzarsi dall’angoscia che deriva loro dal guardare al futuro. È l’ospite inquietante del nichilismo, quello è inutile mettere alla porta perché già da tempo si aggira per la casa, e che non ci resta che guardare bene in faccia».
Cosa vede se lo guarda bene in faccia?
«Vedo che le persone soffrono e, quando le ascolto, mi dicono tutte la stessa cosa: si percepiscono come funzionari di apparato. Capiscono che la loro responsabilità non è in quello che fanno ma è nell’osservanza perfetta degli oneri imposti loro dall’apparato. È una responsabilità esclusivamente verticale, ed è quella inaugurata dal nazismo. Quando Gitta Sereny chiese a Franz Stangl, capo del campo di Treblinka, in Polonia, cosa avesse provato, lui non rispose, e lei glielo chiese decine di volte, finché lui non disse: non ero incaricato di provare qualcosa, ma di far funzionare il sistema. Era un perfetto funzionario. Come noi, che infatti veniamo continuamente sondati da algoritmi che non ci dicono chi siamo, ma a cosa serviamo. Guardiamo gli altri e noi stessi solo sotto il profilo dell’utilità, ed è così che l’uomo scompare».
Sa che la maggior parte di articoli che parlano di lei cominciano con "Come si fa a"? La filosofia non dovrebbe creare il problema anziché risolverlo?
«È un grosso equivoco, e infatti io non rispondo mai, nemmeno nella mia rubrica su D di Repubblica: se mi viene posto un problema, lo amplifico, perché sì, La filosofia irrobustisce le domande, più che fornire risposte. Heidegger diceva che le risposte chiudono la domanda, che quindi deve essere ampliata».
Perché ha portato in Italia la consulenza filosofica?
Perché si ammalano i corpi, la mente, ma pure le idee. E più si ammalano e peggio ci comportiamo. Allora, parlare con un filosofo, che per mestiere ragiona sul senso delle cose, può aiutare a sanarle».
La provoco: lussi da occidentali.
«Astrazioni. Ma le astrazioni sono l’invenzione occidentale per eccellenza. Con la parola albero noi indichiamo tutti gli alberi del mondo, che pure sono diversi, ma noi prescindiamo dalla loro forma sensibile e badiamo all’idea. Gli orientali invece badano all’unicità e alla singolarità: per loro esiste quell’albero preciso, unico e insostituibile, così come per un bambino è unico e insostituibile il suo orsacchiotto. Ecco perché io non credo che occidente e oriente siano contrapposti: credo semplicemente che l’uno, l’oriente, sia la preistoria dell’altro, l’occidente».
Esiste ancora l’identità occidentale?
«Certo. L’America ce l’ha».
E l’Europa?
«Certo. La cultura. Noi ascoltiamo Beethoven, leggiamo romanzi francesi, studiamo Kant. Da sempre».
Ma?
«Ma a livello politico non siamo che una sommatoria di stati, impigriti dal potere degli Stati Uniti. Per questo temo che alla fine di questa guerra si configurerà una nuova Yalta: Russia e Cina si spartiranno le aree di influenza. E noi, che non ci siamo dotati nemmeno di un ministero degli Esteri, non potremo che subire».
Che pessimismo.
«Vede, questo è tipico dell’occidente: pensare che il futuro sia per forza bene e il passato sia per forza male. Anche il cattolicesimo, il marxismo e la scienza hanno sempre creduto che andando avanti l’uomo non potrà che progredire. È un’illusione, e mi sembra che la dimostrazione sia sotto i nostri occhi».
Mi descrive il suo migliore amico?
«Non ho amici. L’amicizia non mi ha mai interessato, trovo che sia una forma decaduta dell’amore».
E cos’è l’amore?
«Follia. E dualità. Noi viviamo la singolarità o la pluralità, per questo non sappiamo più amare».
Il suo più grosso limite?
«Non riesco a seguire la trama di un film. Quando ne guardavo alla tv con mia moglie, aspettavo la pubblicità così che lei potesse spiegarmi cosa fosse successo. L’ultima volta che sono andato al cinema era il 1960».
A vedere?
«La dolce vita. Mica male».