la Repubblica, 1 maggio 2022
Occasione Italia nel risiko del gas
Davanti alla minaccia russa di taglio delle forniture di gas all’Europa, l’Italia è stata la nazione più rapida nel trovare fonti alternative di energia e questo assegna al nostro Paese un ruolo di potenziale leadership geoeconomica nel Mediterraneo che entra d’obbligo nell’agenda in preparazione dell’imminente visita a Washington del premier Mario Draghi.
Il ricatto del gas russo all’Europa – teso a punire i Paesi che sostengono la resistenza ucraina all’invasione militare – è iniziato con una raffica di dichiarazioni del presidente Vladimir Putin accompagnate dalla decisione di ridurre o interrompere del tutto le forniture a Polonia e Bulgaria, due dei Paesi più impegnati a far transitare aiuti militari verso Kiev. La reazione dell’Ue è stata finora coesa nel respingere il ricatto di Mosca ma disomogenea nella scelta delle contromosse. Con la Germania – maggiore importatore di gas russo – in palese difficoltà, come evidenziato dai conflittuali annunci del cancelliere Olaf Scholz sulla consegna di armi pesanti all’Ucraina. Da qui l’importanza delle iniziative del governo Draghi che, in poco meno di due settimane, ha prima firmato con Algeri il raddoppio delle forniture di gas e poi ha inviato i ministri Di Maio e Cingolani in Congo e Angola per pianificare un’altra linea di rifornimento di gas naturale. E ancora: una nuova missione italiana andrà in Mozambico, ricco di giacimenti di gas, mentre il dialogo in corso con l’Egitto verte attorno all’ipotesi di importare dal mega-giacimento di Zhor gas liquido via nave verso i nostri tre rigassificatori, la cui potenzialità è stata rafforzata dall’affitto di almeno due piattaforme galleggianti con simili capacità. A conti fatti l’Italia, che importa il 40 per cento del proprio gas dalla Russia, potrà entro l’inverno del 2023 dimezzare tale dipendenza grazie agli accordi con Algeria, Congo, Angola, Egitto e Mozambico. Oltre al fatto che tali intese possono portare – secondo uno studio della “Capterio”, l’agenzia britannica specializzata del recupero del gas perduto – l’intera regione europea a «sostituire entro 12-14 mesi il 15 per cento del gas russo adoperando impianti sottoutilizzati o a gas liquido».
Ovvero, gli accordi siglati in Africa dall’Italia possono trasformarsi nella «porta all’Europa» per quantità di gas naturale capaci nel breve periodo di sostenere l’impatto della rinuncia all’energia russa. Ad estendere questo scenario sono le altre opzioni a disposizione dell’Italia nel Mar Mediterraneo. La prima e più evidente è un accordo con Israele per far arrivare il gas del mega-giacimento “Leviathan” davanti Tel Aviv fino in Egitto, attraverso il già funzionante “gasdotto della pace”, per aumentare l’import di gas liquido via nave. E poi c’è la seconda: un accordo con la Turchia per portare in Europa, via terra, non solo il gas israeliano ma anche quello azero e dell’Asia Centrale. Ankara finora è stata del tutto dipendente dalle forniture energetiche russe ma la guerra ucraina la sta spingendo lontano da Mosca: prima i droni forniti a Kiev, poi la chiusura del Bos foro al traffico delle navi militari russe – sulla base della Convenzione di Montreux – e quindi la chiusura anche dei cieli agli aerei militari russi fanno capire che Recep Tayyip Erdogan si sta riposizionando, pur senza aderire alle sanzioni a Putin. Erdogan annusa la possibilità di sfruttare la vulnerabilità russa per riavvicinarsi all’Occidente – al fine di sostenere la propria economia in affanno – e magari sfruttare il ridimensionamento della presenza della Brigata Wagner in Libia e Siria per estendere le proprie aree di influenza in Medio Oriente e Nordafrica.
È dal 2020 che Erdogan ha iniziato a riavvicinarsi agli storici rivali regionali – Emirati Arabi Uniti, Egitto, Israele e Arabia Saudita – e gli sviluppi promettono di essere anzitutto sull’energia. Basti pensare che Ankara è il primo partner strategico del Qatar – superpotenza nel mercato globale del gas – e che il recente attacco missilistico iraniano contro Erbil, in Kurdistan, avrebbe avuto come obiettivo – secondo fonti irachene e turche a Reuters — ostacolare il progetto israelo-turco di creare un oleodotto per portare fino in Europa il gas del Kurdistan iracheno.
Tali e tanti tasselli portano a suggerire che la strategia dell’amministrazione Biden favorevole ad una piena emancipazione dell’Europa dal gas russo può passare attraverso l’identificazione nell’Italia di un partner privilegiato, tanto più se Roma e Ankara dovessero riuscire ad armonizzare le mosse nel Mediterraneo al fine di arrivare a far ridurre anche l’attuale presenza militare russa in Medio Oriente, Nordafrica e Sahel. È un processo che può giovare alla Nato per il completo recupero della Turchia – slittata pericolosamente verso Mosca dopo l’acquisto delle batterie antimissile SS-400 durante la presidenza Trump – e può servire anche all’Unione Europea per trovare ad Ankara il “ponte energetico” verso Medio Oriente, Caucaso ed Asia Centrale capace nel lungo termine di sostituire le rotte euroasiatiche dei tubi russi.
Senza contare le implicazioni in Libia, dove la riduzione dei mercenari russi della Brigata Wagner in Cirenaica crea una finestra di opportunità per l’Europa al fine di gettare un ponte verso il generale Haftar di Bengasi e rivitalizzare, d’intesa con il governo di Tripoli, il processo verso le elezioni nazionali auspicato dalla Conferenza di Berlino ma osteggiato dal Cremlino.
Insomma, le scosse del conflitto ucraino possono creare nel Mediterraneo delle opportunità all’Italia – anzitutto sul fronte energetico, ma non solo – capaci di assegnarci un ruolo cruciale nel rinnovato legame fra Europa e Stati Uniti. Perché, come suole ripetere Henry Kissinger, gli interessi dei Paesi sono permanenti in quanto si riflettono nella loro geografia, e l’Italia è nel bel mezzo del Mediterraneo ridiventato cruciale nella stagione della seconda Guerra Fredda fra Occidente e Federazione russa.