la Repubblica, 1 maggio 2022
Il Primo maggio di chi ha stipendi troppo bassi
«Pace, lavoro, salari», grideranno oggi Cgil, Cisl e Uil da Assisi. Ma per tre milioni di lavoratori italiani sarà un Primo Maggio povero. Sono iworking poors di casa nostra, 400 mila in più creati dalla pandemia: poveri nonostante il lavoro, un intreccio sempre più diffuso, persistente, strutturale al di là del Covid, peggiorato col Covid e ora con i venti d i recessione.Basse retribuzioni, part-time forzati, contrattini di pochi mesi, a volte settimane o gi orni: condizioni oramai comuni da Domodossola a Ragusa, ma che scavano divari importanti. A pagare di più, sono giovani, donne e Sud come ha capito anche il Pnrr che qui investe e scommette. Al Sud i lavoratori poveri sono il 20% contro il 9% del Centro-Nord e il 13% nazionale. Il divario di retribuzione è del 75%: al Sud si prende un quarto in meno, di media, che altrove.
Rivela la Svimez, in uno studio inedito sul lavoro povero, che un collaboratore (cococo) meridionale incassa la metà degli altri italiani, i dipendenti privati il 35% in meno. Si salvano solo statali e laureati, in linea col resto del Paese. La retribuzione annua di un dipendente è di 15 mila euro al Sud contro i 22 mila del Nord, sotto di un terzo. Per le donne va anche peggio perché hanno il doppio gap, di territorio e di genere: guadagnano meno degli uomini (il 27% in media nazionale) e ancora meno se al Sud.
Non c’è da stupirsi dei bassi salari, stagnanti dal 2008 – cresciuti di tre punti contro i 22 della media Ue – scrive la Svimez, considerata l’evoluzione «patologica» della precarietà in Italia. Non solo contratti a termine, ma anche la loro persistenza nel tempo e l’esplosione dei contratti stabili per finta, cioè a tempo indeterminato ma a part-time involontario. Da strumenti di conciliazione tra vita e lavoro, questi contratti sono diventati delle trappole di povertà.
Siamo passati da 1,3 milioni nel 2008 a 2,7 milioni di lavoratori costretti a poche ore di impiego, quasi raddoppiati. Al Sud da 490 mila a 900 mila. Qui l’80% di tutti i part-time è non voluto, quattro su cinque al Sud lavora poco, ma non per scelta. Specie le donne del Sud che registrano un’incidenza altissima, la più alta d’Italia, il 24% contro il 19,6%. Nessuna meraviglia dunque se i salari sono bassi, se si lavora poco, malpagati e in continua transizione precaria.
«Il Sud è solo una lente di ingrandimento di un mercato del lavoro italiano che funziona male, non è un’altra storia: è la stessa storia», dice Luca Bianchi, direttore della Svimez. «I contraccolpi sull’economia del Paese sono e saranno enormi, specie con l’inflazione a questi livelli, perché la questione salariale condiziona la ripresa e rischia di zavorrare anche l’impatto del Pnrr, Se non chiudiamo i divari, ci impantaniamo».
Il Primo Maggio serve allora anche per tornare a rivendicare un lavoro «dignitoso e non precario», insiste Maurizio Landini, leader Cgil. «Non si può essere poveri pur lavorando. È ora di mettere più soldi in tasca ai lavoratori». Anche dei giovani. Colpisce un altro studio delle Acli su un milione didichiarazioni dei redditi 2020 arrivate ai loro Caf. Ebbene quasi la metà dei lavoratori trentenni oscilla tra la povertà assoluta e l’autosufficienza stentata, con retribuzioni tra 8 mila e 16 mila euro all’anno. Un altro 20% va in forte difficoltà se si presentano imprevisti, con stipendi attorno a 22 mila euro annui. E i dati sono anche sottostimati, si legge nell’analisi, perché il 77% dei lavoratori dipendenti del campione è del Nord, noto per buste paga più generose. «I giovani lavoratori italiani lambiscono la povertà a 30-34 anni, ma poi non ne escono a 35-39, da quasi quarantenni, davvero allarmante», dice Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale Acli. «La povertà lavorativa toglie dignità, pregiudica il futuro e indebolisce il Pase, la sua tenuta sociale. Non può essere ignorata».