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 2022  maggio 01 Domenica calendario

Biografia di Luciano Ligabue raccontata da lui stesso

Luciano Ligabue ha davanti un piatto di salumi e gnocco fritto – «ma non sono un grande mangiatore, da bambino le suore mi imboccavano a forza e io vomitavo...» – e le bozze della sua autobiografia: 500 pagine intitolate semplicemente «Una storia». 
Lei scrive di essere nato bluastro, e che in America l’avrebbero definito born blue: nato triste. In effetti nel libro c’è una vena di tristezza, di malinconia. 
«C’è nella mia vita. E nelle mie canzoni. Mi porto dentro da sempre un senso di colpa, un pensiero di troppo. Sarà il retaggio cattocomunista. Per questo ho scritto Una vita da mediano. Un delle tante canzoni fraintese». 
Perché? 
«Il senso è che nonostante il successo sono ancora qui, a correre, a lottare, a fermare l’avversario e far ripartire il gioco: come Bedin, come Oriali, come Cambiasso. Senza Cambiasso noi interisti non avremmo mai vinto il Triplete». 
A un anno e mezzo lei rischiò di morire di peritonite. 
«Se ne accorse un medico, che era per caso nella farmacia dove mia mamma mi aveva portato. Ma l’unico ricordo è la cicatrice. Mi ricordo invece quando a cinque anni rischiai di morire per un’operazione sbagliata alle tonsille». 
Se ne accorse sua madre. 
La Rina aveva preteso di passare la notte con me in ospedale. Mi scossero, e vomitai tutto il sangue che stavo ingurgitando. Emorragia. Mancava il plasma del mio gruppo, me lo donò una suora. Forse il senso di colpa viene anche da lì, dal sangue della suora...». 
Il primo ricordo in assoluto qual è? 
«Un divano a scacchi, arlecchinesco. L’unica nota di colore in una casa in bianco e nero. Bianco era il lenzuolo che separava il mio letto da quello dei genitori, nella stanza dove dormivamo tutti insieme». 
Suo nonno Marcello è una figura importante della Resistenza reggiana. 
«Sì, ma io lo scoprii per caso, dal mio insegnante delle medie, quando lui era già morto, di 25 aprile. Non ne parlava mai, e mai ho respirato rancore o spirito di vendetta verso i fascisti. Prima della guerra il nonno tentava di mettere su un banchetto da merciaio, ma ogni volta le camicie nere lo costringevano a chiudere, con i manganelli e l’olio di ricino; lui però rifiutò sempre la tessera del partito. Durante la Resistenza vennero a bussargli a casa, per dirgli che avevano ucciso suo figlio, mio zio Bruno, partigiano». 
E lui? 
«Rispose in dialetto: An ghe dubi, non c’è dubbio. Come a dire: non ci credo, è una trappola». 
Come finì? 
«Era una trappola: volevano indurlo ad andare da Bruno, e a svelare così il suo nascondiglio. Per fortuna il nonno non si mosse». 
Lo zio era morto? 
«No. Gli avevano ucciso davanti agli occhi il suo migliore amico, Luciano Dodi: una via di Correggio oggi porta il suo nome. Zio Bruno si nascose nel fieno. Un tedesco rovistò col forcone per stanarlo, ma lo sfiorò appena». 
Correggio, prima che per lei, era nota per la saponificatrice. 
«Leonarda Cianciulli: il primo serial killer italiano. Conosceva bene mia nonna Ermelina, aveva invitato pure lei a casa per un caffè... Ma la nonna si considerava, e forse era, invulnerabile grazie al suo talismano, la pelle di biscia. C’è anche una vena esoterica nella mia storia: il numero 7 che ricorre, la doppia elle del nome che ho voluto dare anche ai miei figli: Lorenzo Lenny, Linda, Leon». 
Lei è del 13 marzo 1960. 
«Meno di quattro mesi dopo, la polizia sparò sugli operai: i morti di Reggio Emilia». 
Anche suo padre, come il nonno, faceva l’ambulante. 
«Ma poi divenne socio di una sala da ballo: il Foxtrot di Carpi. Lì vidi il primo concerto della mia vita». 
Chi suonava? 
«Un uomo alto come me; che però avevo dodici anni. Brutto, pelosissimo. Poi salì sul palco, e mi apparve forse bello, di sicuro enorme: i musicisti sparirono, esisteva soltanto lui. Era Lucio Dalla». 
Siete rimasti in contatto? 
«Vent’anni dopo mi telefonò per dirmi: “Ho ascoltato questa tua canzone, Certe notti. Il tuo album venderà 700 mila copie”. Clic. Non aggiunse altro». 
Si sbagliava per difetto: di copie quell’album, Buon compleanno Elvis, ne vendette un milione e mezzo. 
«Ma Lucio mi rese felice. Del resto, devo a lui la sopravvivenza durante l’anno più brutto della mia vita: il militare a Belluno, tra prevaricazioni inutili e crudeltà volgari, insulti e gavettoni di piscia di mulo. Per resistere ascoltavo Futura di Dalla, oltre a Patriots di Battiato. E leggevo Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli». 
Anche lui di Correggio. 
«Io abitavo al secondo piano, lui al quinto. Quel suo libro fece scandalo, anche perché, nella terra di don Camillo e Peppone, Tondelli era collocato dalla parte di don Camillo: il fatto che avesse scritto un romanzo da Feltrinelli, sequestrato per oscenità, fu uno choc. Scendeva le scale radente al muro, con un cappellaccio nero: si vedeva che stava già male. Una sera dovetti saltare uno dei miei primi concerti, avevo la febbre, e feci una cosa che non facevo mai: andai a letto presto. Sentivo rumori strani, sedie trascinate. Era Tondelli che stava morendo». 
Lei da che parte stava? 
«I miei genitori erano comunisti, ma io andavo in chiesa. Mi confessavo». 
Crede ancora? 
«Sì. Non può non esistere una linea di giustizia che regola il mondo». 
E in politica da che parte sta? 
«Sono cresciuto al tempo in cui comunista non era ancora una parolaccia: mi commossi quando sentii Gaber cantare Qualcuno era comunista, ne ho fatto anche una mia versione. Oggi voto Pd, ma a fatica. Fatico a seguire Letta in questa convinzione che per fermare la guerra in Ucraina si debbano mandare altre armi». 
Armi per resistere all’invasore. E per costringere Putin a un compromesso. 
«Si figuri se non sento l’idea di resistenza. Ma se poi il compromesso non arriva? Altre armi serviranno solo a fare altri morti». 
Lei scrisse una canzone contro la guerra del Kosovo, Il mio nome è mai più, con Piero Pelù e Jovanotti. 
«E ci hanno coperti di merda. Tutti sollecitavano i musicisti a fare qualcosa, anche da Palazzo Chigi, dove c’era la sinistra. Ma noi non facemmo quello che si aspettavano. Sono sempre stato contro la violenza, in qualsiasi forma. Fu il cd singolo più venduto nella storia della musica italiana. Dovemmo pagare l’Iva. Ma con il resto Gino Strada costruì due ospedali in Afghanistan». 
Per lei il successo non arrivò subito. 
«Ho fatto il primo concerto a 27 anni: l’età in cui i grandi del rock muoiono». 
Come mai? 
«Accompagnato dal mio amico Claudio Maioli, facevamo collezione di rifiuti. “C’è ancora molto lavoro da fare”, “magari possiamo sentirci più avanti”, o anche, più direttamente: “Le tue canzoni fanno schifo”. “C’è troppo Guccini” disse un produttore; e stava parlando di Balliamo sul mondo...”». 
Decisivo fu il concerto di Battiato. 
“Ero sotto il palco con la mia ragazza di allora, che nel libro chiamo Morena. Ero stato a stecchetto per un anno: gli ormoni erano rifrullanti. Arrivano due donne splendide, ne avverto la carica erotica, che però è tutta concentrata su Battiato. “Quant’è bbono!” grida una. E l’altra: “Me lo farei subito!”. Battiato: non proprio un sex symbol. Magari faccio il cantante, ho pensato”. 
Da lì a qualche anno i reggiseni li tiravano a lei. 
«Sono sempre stato timido. Ma sul palco diventavo sicuro di me, sfrontato, sfacciato. Una medicina che fa effetto per due ore e mezza, che fa star bene me e gli altri. All’inizio cercavo nel pubblico i miei amici e li vedevo abbassare gli occhi: non mi riconoscevano». 
Quanti concerti ha fatto? 
«Ottocento. Ma sono fermo da tre anni. Si ricomincia il 4 giugno: aspetto più di centomila persone al Campovolo, la vecchia pista di prova di fronte alle Officine Reggiane». 
Primo concerto? 
«Mi dicono che devo esibirmi prima di Gino Paoli. In realtà Gino Paoli non lo incrocio neppure: è ancora pomeriggio, sole alto, clima tristissimo. Canto tre canzoni mie, ma che in realtà non mi appartengono: sono storie di persone che non conosco. Prostitute, tossiche...». 
Anche nel libro lei racconta due storie di droga. 
«Un mio amico è uscito dall’eroina. Un altro dalla cocaina, ma è caduto in depressione e si è gettato dal terrazzo. È un’esperienza che ho sempre evitato». 
Secondo concerto? 
«All’inaugurazione di una rosticceria. Canto Vaselina blues, per il disgusto di un cantautore di Correggio, indispettito dall’argomento. Andrà così anche al Costanzo Show...». 
Così come? 
«Dopo il primo successo, nel 1991, mi invita Maurizio Costanzo. Siccome ho portato la chitarra, mi chiede la canzone recensita con entusiasmo da Paolo Zaccagnini sul Messaggero: Figlio di un cane. Applauso fiacco. Costanzo commenta: di questo Ligabue sentiremo parlare a lungo. Applauso più convinto. Poi Costanzo chiede un giudizio a Carlo Croccolo, l’attore, pure lui disgustato: “Preferisco le canzoni in cui non si parla di preservativi rotti”. Al che sale sul palco Leopoldo Mastelloni, che solidarizza, mi abbraccia, e mi chiede di cantare con lui “’nnu brano rock”. Facciamo Dylan? “No, uno famoso”. Così cantiamo Oje vita, oje vita mia...». 
A scoprirla fu Pierangelo Bertoli. 
«Quando gli feci sentire la cassetta con Sogni di rock’n’roll la estrasse e la gettò via. Ma quando subito dopo gliela suonai, a testa bassa, cambiò idea. E la volle nel suo disco». 
Lei nel libro racconta la morte di Bertoli come quella di un filosofo greco. 
«Negli ultimi giorni era costretto dal dolore a stare a pancia in giù. La sua Bruna gli teneva il capo sulle gambe. Pierangelo le disse: sei stata la cosa migliore che mi potesse capitare nella vita. Poi, con uno sforzo enorme, alzò la testa e la cercò con gli occhi: Amor... a vagh. Amore, vado». 
Anche Pavarotti è delle sue parti. 
«Si esibì al Tropical, l’altro locale gestito dai miei, a Rovereto sul Secchia: una delle prime discoteche emiliane. Mia mamma riferì che era un gran bell’uomo. Non poteva immaginare che avremmo cantato insieme». 
Come andò? 
«Un giorno mi telefonano: Pavarotti è a Merano, da Chenot, per disintossicarsi dal cibo; ma si annoia, vuole fare le prove. Arrivo a Merano, salgo in camera, e avverto un profumo inconfondibile. Pavarotti scosta la tendina e mostra due salami lunghi come missili. Il frigobar era pieno di caciotte comprate in autogrill. Aveva trasformato Chenot in un centro di intossicazione». 
Come furono le prove? 
«Un disastro. Pavarotti detestava le prove, preferiva giocare a carte. Anche sul palco non riusciva ad adattarsi al ritmo della batteria. Ma quando, davanti alla gente, cominciò a cantare, fu una trasfigurazione. La sua voce, quella vera, copriva il volume dei miei monitor, cioè dei suoni sparati dagli amplificatori. Un’esperienza non umana». 
La serial killer 
Leonarda Cianciulli, la «saponificatrice di Correggio», conosceva molto bene mia nonna Ermelina: la invitò anche a casa sua per un caffé... 
Quando lo vide l’ultima volta? 
«Andai a trovarlo poco prima che morisse. Era già in sedia a rotelle, e continuava a insegnare. Rimproverava un allievo perché non “abitava” le parole, non le scandiva. Ha notato che Pavarotti è l’unico tenore di cui si capiscono tutte le parole? Lui, però, non è delle mie parti». 
È di Modena. 
«È strano che al confine tra Modena e Reggio, tra Carpi e Correggio, non ti chiedano il passaporto. Sono due mondi diversi. Di là Porsche e champagne, ostentazione e arte di godersi la vita: gente che il sabato va a Parigi per andare dal parrucchiere. Di qua contadini, operai, sportelli bancari. Noi reggiani siamo sparagnini, schisci, quasi piemontesi». 
Lei che lavoro faceva? 
«Impiegato all’Arci spettacolo. Un giorno arriva un cantautore che parla un italiano ricercato, con in mano una bottiglia di grappa, a chiedermi di fargli da manager: era Vinicio Capossela. Non lo convinsi. Se ne andò, portando via la bottiglia: non l’aveva finita». 
E poi? 
«Quando chiuse il Tropical, mio padre rilevò il Centro Deposito Pellicce: un bunker refrigerato dove d’estate si tenevano al fresco le pellicce delle signore emiliane. Ce l’abbiamo ancora quel bunker, non lo vuole comprare nessuno, se davvero scoppia la guerra nucleare tornerebbe utile... Io facevo un po’ da contabile, un po’ da custode. Guardiano delle pellicce. Ovviamente mi annoiavo a morte. Ne approfittavo per scrivere canzoni». 
Come nasce Certe notti? 
«Dall’inquietudine. Dall’irrequietezza. Sono le notti in cui devi uscire perché non sei in pace con te stesso, cerchi di risolvere qualcosa. Anche quella è una canzone fraintesa. Quasi tutte nascono da un disagio personale che mi consente di far arrivare agli altri quel che provo. Non pensavo che avrebbe avuto tanto successo, credevo che il produttore avrebbe puntato su Vivo morto o X». 
Una fuga notturna le salvò la vita. 
«Era il primo agosto del 1980, un venerdì. Avevo una licenza dal militare, e con due amici storici decidiamo di andare a Rimini, in cerca di ragazze. L’idea è partire la mattina dopo in treno da Bologna: l’autostrada sarebbe stata murata. Invece cambiamo idea e andiamo in macchina la notte stessa. Il mattino ci svegliamo con le immagini della strage in stazione. Ci ho ripensato quando ho fatto il secondo film, Da zero a dieci». 
Il primo è Radiofreccia. 
«Nato dalle radio libere, e dal giro del bar Tubino. La formazione da bar era maschilista, ma segnata da figure mitiche. Ballisti clamorosi. Come Savana, che nel deserto faceva da guida a Rommel; o almeno così raccontava. “Savana, da che parte andiamo?”. “Io vado di là, te fai come vuoi!”. Ovviamente aveva ragione Savana: “Io poi sono tornato; Rommel, non so”. O come Otorino (si chiamava proprio così): sosteneva di parlare con i morti, e girava col registratore con le voci incise. “Chi hai oggi, Otorino? Cesare, Napoleone?”. E lui: “Oggi ho Berlinguer, sentite, dice: basta con la Russia!”. “Otorino, ma sembra la tua voce...”. Ovviamente era sempre lui: la modulava a seconda dell’epoca e del personaggio». 
E A che ora è la fine del mondo? da cosa nasce? 
«Dalla vittoria di Berlusconi nel 1994». 
È vero che all’apice del successo lei voleva ritirarsi? 
«È vero. Non mi andava di essere etichettato come rocker, di quelli costretti a girare sempre con gli occhiali scuri. Non mi andava di vedere i paparazzi pure a Correggio. Di farmi un nemico a ogni “non posso”. Di avere qualcuno dall’altra parte in attesa di qualcosa da me. Di sentire che avere successo significa svendersi. E poi il solito senso di colpa». 
Invece? 
«Invece mi sono reso conto che potevo fare canzoni per il piacere di farlo. E ho scritto Sulla mia strada: “Sono vivo abbastanza...”». 
Lei ha sposato un’amica d’infanzia. 
«A Donatella avevo dato una manata in faccia giocando a nascondino. Non l’avevo fatto apposta, ma lei aveva pianto tanto, e non per il dolore. L’ho ritrovata dopo anni. Una persona meravigliosa. Insieme abbiamo sofferto e siamo stati felici, abbiamo perso due gemelli e abbiamo avuto Lorenzo Lenny, il mio primogenito». 
E lei l’ha lasciata. 
«Un senso di colpa lacerante. Un trauma per lei e per me. Ma avevo incontrato Barbara. E non potevo mentire a tutti, a cominciare da me stesso». 
Con Barbara ha avuto una figlia, Linda, e un figlio nato morto, Leon. 
«Ce lo fecero vedere. Me lo ritrovai in mano: un affarino di un chilo. Aveva i tratti della mamma. La voce di bambina della Barbara disse: è perfetto. L’ho fatto seppellire in un cimitero che ha un angolo chiamato degli angeli. All’inizio la Barbara ci andava tutti i giorni. Si sentiva come se il suo corpo fosse diventato marcio, incapace di dare la vita... Un pensiero ingiusto, ma il suo “sentire” la faceva stare così. Solo chi ci è passato lo capisce». 
Lei racconta anche la morte di suo padre. 
«Dopo l’intervento al fegato, un medico ci dice: lo volete vedere? Certo che sì. Solo che non ci porta da Giuanin, mio padre; ci mostra il tumore, le viscere, i segni infetti del male che l’avrebbe ucciso... Mia madre si sente svenire, mio fratello Marco stringe i pugni... Lui, Giuanin, non si lamentava mai. Non voleva disturbare. Un altro medico ci disse: preparatevi a un mese di calvario. Se ne andò il giorno dopo. Quand’ero ragazzo mi ripeteva: I musicista in tut di mort ed fam». 
I musicisti sono tutti morti di fame. 
«Eppure fu lui, Giuanin, a regalarmi la prima chitarra». 
Lei fu operato quando perse la voce. 
«La persi sul palco. Non ne sono sceso, non l’ho mai fatto; ma fu il concerto peggiore. Una grande paura. Barbara, che alla parte esoterica della vita ci crede, dice che l’ho persa per aver dato voce all’operaio di Made in Italy, il mio terzo film. Forse non c’entra niente; ma mi piace pensarlo». 
Nel libro lei attribuisce la rivalità con Vasco Rossi ai giornalisti. È davvero tutta colpa loro? 
«È una storia da cui mi è venuta una grande sofferenza. Ma nulla e nessuno riusciranno a farmi diventare antipatico Vasco Rossi. L’ho sempre rispettato, e lo rispetterò sempre». 
Lei è davvero timido, come dice? 
«Sì. Nessuno mi crede, ma è vero. È come vivere con il freno a mano tirato; ma ti crea un mondo interiore più ricco». 
Dicono pure che sia un tipo riservato. 
«Dopo questo libro, e dopo questa intervista, non potranno più dirlo».