Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  maggio 01 Domenica calendario

In morte di Mino Raiola

Carlos Passerini, Corriere della Sera
Suite privata all’ultimo piano del Monte-Carlo Bay Hotel, duemila euro a notte, luglio 2017. Il caldo è tremendo, ma il clima della Costa Azzurra c’entra fino a un certo punto. È la prima estate bollente di Gigio Donnarumma, 17 anni, corteggiato da mezza Europa: il braccio di ferro fra Mino Raiola e il Milan dei cinesi va avanti da mesi, senza sosta, a colpi di taglienti dichiarazioni a mezzo stampa fra il d.s. rossonero Mirabelli e l’agente del portiere, che a sorpresa convoca una conferenza per la domenica più calda dell’anno. Da Milano partono i giornalisti, tutti in giacca e camicia, che Montecarlo è Montecarlo. Arriva lui. In ciabatte e costume da bagno. Scende dalla Mercedes, guarda tutti, sghignazza: «Ma come c... vi siete vestiti?». Si sale alla suite. Un inserviente entra con le bevande fresche. Mino lo ferma sull’uscio: «Va’ pure, ci penso io». Lo fa davvero. Prende i bicchieri e serve uno a uno. «Mai capito perché mi danno del pizzaiolo. Io facevo il cameriere. Che poi, mi sono sempre chiesto, che offesa è dare a uno del pizzaiolo?». Già, che offesa è? 
Mino, scomparso ieri all’ospedale San Raffaele di Milano a 54 anni, dopo una vita da film e soprattutto dopo aver lottato fino all’ultimo contro la malattia, era esattamente così: spiazzante, eccessivo, geniale, genuino, divisivo. Amato e odiato. Amato dai suoi assistiti, come Zlatan Ibrahimovic, che nell’autobiografia racconta: «Mino è la mia famiglia». Odiato invece spesso dai presidenti, che grazie a lui a volte facevano affari d’oro, altre finivano per perdere i giocatori a zero. Erano le regole del gioco. Mai visto però un dirigente che gli abbia chiuso la porta o l’abbia bloccato sul telefono. Il Milan, per dire, che quest’estate ha perso proprio Donnarumma senza incassare un euro, è stato fra i primi a esprimere il proprio cordoglio alla famiglia. Beppe Marotta, ad dell’Inter, l’ha salutato così: «Sono affranto e dispiaciuto, era un amico». Andrea Agnelli, presidente della Juventus: «Ti voglio bene, Mino. Non prendere in giro in Paradiso, loro sanno la verità». Marco Verratti, centrocampista del Psg, suo assistito: «Grande Mino». Renzo Ulivieri, presidente degli allenatori: «Ha segnato un’epoca». Di più: ha rivoluzionato un mestiere, cambiando le regole d’ingaggio. Non più rappresentante, ma intermediario. A tal punto da diventare più importante dei giocatori stessi. Secondo Forbes, nel 2020 la sua agenzia aveva guadagnato 75 milioni di euro. E che scuderia: oltre a Donnarumma e Ibrahimovic, pure Pogba, Balotelli, Nedved, Haaland, De Ligt. Nato a Nocera Inferiore, figlio di immigrati, era partito dalla pizzeria del padre in Olanda per arrivare a diventare il re del calciomercato. Se aveva da dire qualcosa, lo faceva: fosse anche Guardiola, Ferguson o la Fifa. Parlava sei lingue, ma diceva di pensare in dialetto campano: «È più veloce». 
Le sue condizioni erano gravissime da giorni. La notizia della sua scomparsa era circolata giovedì, poi smentita. A dare l’ufficialità, com’era giusto che fosse, è stata ieri la famiglia, attraverso un messaggio sui social: «Ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i calciatori. E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui, senza nemmeno rendersene conto. È stato parte della vita di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il calcio un posto migliore sarà portato avanti con la stessa passione».

***

Emanuele Gamba, la Repubblica
È morto “il più straordinario procuratore di sempre”, come ha scritto la famiglia annunciando l’addio di Mino Raiola: l’aggettivo scelto rende l’idea, perché la straordinarietà è stata senza dubbio la cifra dell’agente più popolare al mondo. Aveva appena 54 anni. Il primo, lo visse in Italia, prima che la famiglia si trasferisse da Angri ad Haarlem per aprire la pizzeria Napoli nella splendida Grote Markt, all’ombra della gotica cattedrale. È girando tra i tavoli, diceva, che imparò a sciogliere la parlantina e intuì che ogni cliente andava gestito su misura. Lo chiamavano con disprezzo “il pizzaiolo”, «come se ci fosse qualcosa di male a fare pizze. Ma io sono un cameriere».
A vent’anni aveva già fatto i soldi, comprando e rivendendo un McDonald’s e poi esportando tulipani e importando forniture per ristoranti italiani. Dai tulipani ai calciatori fu un attimo: si infilò nell’ambiente da modesto difensore dell’Haarlem, di cui però a 19 anni era già ds. Bazzicando i club della zona, a cominciare dall’Ajax, entrò in confidenza con i giocatori, alcuni dei quali erano clienti della pizzeria tipo l’egiziano Mido, quello che gli presentò Ibrahimovic, il primo campione che ebbe tra le mani, quello che gli schiuse le porte del grande calcio e che resterà il suo figlio prediletto assieme a Nedved, scovato in Repubblica Ceca e consegnato a Zeman che gli aveva chiesto di trovare “uno che dribblasse come Maradona ma che si allenasse come un fanatico”.
In un quarto di secolo Raiola ha costruito un impero che guidava da Montecarlo — ufficio in Boulevard d’Italie, quattro stanze sobrie e in un condominio come tanti — tirando i fili con la sua aria da “cameriere di pizzeria nel giorno libero”, come lo aveva definito il Financial Times .
Maglietta attillata, pancia prominente, ascella pezzata, magari bermuda e infradito, barba mai rasata di fresco: ai negoziati si presentava così, all’inizio perché «col vestito sono a disagio» e poi perché quel look aveva cominciato a definire il personaggio. «Quando mi vedevano arrivare conciato in quel modo pensavano che fossi mezzo scemo: essere sottovalutati è un vantaggio enorme, in una trattativa». Parlava sette lingue, l’olandese meglio dell’italiano. «Però penso in campano, che ha connessioni logiche più veloci». Non rappresentava allenatori perché «voglio essere libero di mandarli affanculo» e aveva la fama (consolidata dalla vicenda Donnarumma) di quello con l’unico obiettivo di spostare giocatori per muovere soldi. In realtà alla maggiore parte dei suoi assistiti non faceva cambiare squadra così di frequente, perché per prima cosa cercava il club ideale per il suo cliente: sapeva che se la scelta era giusta, il guadagno sarebbe cresciuto di conseguenza. De Ligt, per dire, lo portò alla Juve «per farlo studiare alla scuola di Bonucci e Chiellini », mentre Haaland lo stava facendo crescere a tappe graduali (Molde, Salisburgo, Borussia), nonostante già tre anni fa mezza Europa lo avrebbe ricoperto di soldi per farsi portare il fenomeno norvegese. Il suo capolavoro resta il viaggio Manchester- Torino e ritorno con Pogba, che gli valse 27 milioni in commissioni.
Cosa succederà adesso alla sua scuderia, che si reggeva sostanzialmente sui suoi rapporti umani coi i calciatori? La trattativa Haaland ultimamente la stava gestendo l’unica sua socia, l’avvocatessa brasiliana Rafaela Pimenta, mentre sul mercato italiano si muove il cugino Enzo e la sede di Amsterdam è presidiata dallo spagnolo José Fortes Rodriguez. Ma nessuno di loro ha il dono della straordinarietà.

***

Antonio Barillà, La Stampa
Cinquantaquattro anni soltanto. L’incredulità che si somma al dolore. La percezione violenta della fragilità di fronte al destino. Quando s’abbatte niente ha più senso, né il potere né il denaro. Mino Raiola li possedeva entrambi e non era grazia ricevuta, aveva costruito un impero partendo dal nulla, dal ristorante aperto ad Haarlem, due passi da Amsterdam, da papà e mamma emigrati da Angri, provincia di Salerno, quando lui aveva appena otto mesi. Lo chiamavano "Il pizzaiolo" e il tono tradiva il senso: ammirazione per un self made man o richiamo sprezzante alle origini umili. Giurava di non aver mai sfornato una Margherita, ma d’averle sì portate ai tavoli: ne andava fiero perché quella era stata la sua scuola, più del liceo e dell’università interrotta.
Aiutando i genitori, contabile e non solo cameriere, scoprì la vocazione imprenditoriale e l’inclinazione per le lingue, passepartout del successo: ne parlava sette, l’italiano delle radici e l’olandese della seconda patria, l’inglese imparato da bambino guardano Disney in originale, il tedesco, il francese, lo spagnolo e il portoghese. Amava il pallone, aveva fatto qualche gol nelle giovanili dell’Haarlem, me le prime mediazioni non c’entravano: i commercianti olandesi e italiani avevano modi e metodi opposti negli affari e Mino, all’anagrafe Carmine, smussava, avvicinava, trovava il punto d’intesa. Il calcio arrivò poco dopo, chiacchierando con il presidente dell’Haarlem che tutti i venerdì andava a cena nel suo locale: fu così convincente, o sfacciato, da essere nominato, ventenne, responsabile del settore giovanile e poi direttore sportivo.
Imparò in fretta i trucchi del mercato, ottenne dal sindacato calciatori l’incarico di rappresentante degli olandesi all’estero, portò Bryan Roy al Foggia, Dennis Bergkamp e Wim Jonk all’Inter, poi superò l’esame di agente Fifa e diede inizio alla scalata. Tra i primi assistiti Pavel Nedved, trasferito dallo Sparta Praga alla Lazio per 9 miliardi di vecchie lire e, cinque stagioni dopo, alla Juventus per 75. Bianconero diventò anche Zlatan Ibrahimovic, amico fraterno prima che punta di diamante della scuderia, conosciuto da piccolo narciso all’Ajax e trasformato in gladiatore: raccontava d’averne conquistato la fiducia dandogli al primo incontro dello str..., spiegandogli bruscamente che per diventare il migliore non doveva più fare il fighetto ma lavorare duro. Zlatan capì e la pessima impressione iniziale finì in frantumi: quello «gnomo ciccione» in t-shirt che aveva «divorato cibo per cinque» sarebbe diventato il suo guru. Il look a Mino interessava, a chi gli rimproverava d’apparire trasandato replicava che lui discuteva di soldi e non di moda e che anzi l’apparenza era un’arma così lo sottovalutavano e strappava di più, difatti per anni ha spostato top player e milioni in bermuda e camicia hawaiana: Paul Pogba, Erling Haaland, Mario Balotelli, Matthijs de Ligt, Gigio Donnarumma, Stefan De Vrij, Marco Verratti, Ryan Gravenberch, Moise Kean. Tutti legatissimi. Mino ha cambiato il ruolo del manager, ha difeso i loro interessi contro tutto e tutti, fregandosene di inimicarsi dirigenti, colleghi e politici. Dissacrante, d’altronde. Provocatorio, spregiudicato, sfrontato. E di chi poteva avere soggezione uno capace di tacciare pubblicamente di mafia le maggiori istituzioni sportive e dare dell’incompetente a uno dei suoi più alti rappresentanti? Era tra gli agenti più discussi, ma anche tra i più bravi e ricchi: quarto al mondo per Forbes nel 2020 con un fatturato di 84,7 milioni di dollari e un giro di affari di 847,7, il patrimonio non è stimato con precisione ma si dice sfiori i 500 milioni di euro.
Tutto è impallidito di fronte alla malattia, affrontata con coraggio ma purtroppo più forte: «Mino ha lottato con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i suoi calciatori - recita l’annuncio social della famiglia -. È stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il mondo del calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione».