Avvenire, 30 aprile 2022
Prato, le fabbriche cinesi ai raggi x
Prato, la capitale europea del pronto moda cinese, è anche la capitale italiana dello sfruttamento lavorativo. Lo dicono i numeri dei procedimenti giudiziari per l’articolo 603 bis del Codice penale, da quando, nel 2016, è stato riformato per contrastare le nuove forme di caporalato. Dal 2017 al 2020 i procedimenti penali aperti per il reato di sfruttamento lavorativo a Prato, infatti, sono stati 59. Di questi, 27 so- no stati archiviati, mentre 14 sono già stati definiti con sentenze e condanne, quasi sempre a carico di imprenditori cinesi del comparto confezioni. In 7 casi sono scattate anche misure cautelari personali e sequestri preventivi dei beni finalizzati alla confisca. I numeri emersi dai procedimenti giudiziari – hanno più volte sottolineato il procuratore Giuseppe Nicolosi e il sostituto Lorenzo Gestri, coordinatore del pool di magistrati anti-sfruttamento – rappresentano la punta dell’iceberg del fenomeno. Siamo in una terra, Prato, in cui una galassia di migliaia di piccole imprese attive nel settore tessile, presenta due fattori di rischio: basso livello di specializzazione e presenza di una manodopera straniera strutturalmente in condizioni di bisogno (non foss’altro che per l’esigenza di rinnovare i permessi di soggiorno, circa 35mila quelli gestiti ogni anno dalla Questura di Prato). L’ultimo caso sollevato dal Si Cobas, settimana scorsa, ha riportato nuovamente il distretto cinese delle confezioni alla ribalta delle cronache nazionali: cinque operai pachistani di un pronto moda a conduzione orientale di Campi Bisenzio licenziati con un messaggio WhatsApp perché hanno chiesto di lavorare otto ore al giorno – e non più dodici – e di poter avere un giorno di riposo per Pasquetta. Dopo il clamore suscitato dalla notizia, il 25 aprile l’Ispettorato del lavoro di Firenze ha controllato il capannone e ha trovato alle macchine da cucire e alle stiratrici 13 operai cinesi, di cui 6 totalmente in nero, in assenza di preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro. Si tratterebbe di personale in sostituzione di quello allontanato, che l’azienda non ha fatto in tempo a contrattualizzare perchè il primo giorno di lavoro coincideva con un giorno festivo: questa la versione riportata da Rende Zhang, un giovane cittadino cinese che, davanti ai cancelli della fabbrica, dice di essere delegato dal capo per gestire alcuni affari dell’azienda e nega che gli operai pachistani siano stati sfruttati. «Le aziende del supersfruttamento non hanno paura dei controlli. Il più delle volte pagano le sanzioni e tornano il giorno dopo a sfruttare, perché le sanzioni sono semplici cifre di costo da mettere a bilancio e i profitti sono di gran lunga maggiori» denuncia Luca Toscano, leader del locale Si Cobas, che negli ultimi anni ha aperto diverse vertenze per conto di decine di operai pachistani, i quali hanno denunciato a più riprese di essere sfruttati nelle confezioni cinesi – turni di 12 ore al giorno, a fronte di contratti part-time di ’copertura’, per paghe di mille euro al mese, senza riposo settimanale, ferie e malattia – e hanno rivendicato i propri diritti al motto di ’8x5’, otto ore per cinque giorni lavorativi settimanali. «Nonostante negli anni siano stati siglati diversi protocolli con le istituzioni per aiutare le vittime, che prevedono sportelli antitratta, percorsi di inclusione e supporto per l’ottenimento di permessi di soggiorno speciali, sono ancora pochi, tra gli operai sfruttati cinesi, coloro che si rivolgono a noi per chiedere aiuto. A prevalere è ancora la paura di perdere quel poco che si ha» ammette il sindacalista Mirko Zacchei, segretario della Femca Cisl Firenze-Prato.
Il fenomeno delle confezioni cinesi del distretto di Prato da oltre 20 anni è proliferato nell’illegalità diffusa: fabbriche dormitorio, violazioni in materia antinfortunistica, lavoro nero e “grigio”, evasione fiscale, il tutto innervato sulle ditte “apri e chiudi” intestate a prestanome, età media inferiore ai 3 anni, quanto basta per eludere gli accertamenti e le riscossioni forzose di Agenzia delle Entrate, Equitalia, Inps e Inail. I controlli del Piano Lavoro Sicuro, con l’apporto dei 70 ispettori assunti dalla Regione Toscana a seguito dell’incendio alla Teresa Moda in cui nel 2013 persero la vita 7 operai cinesi, hanno migliorato le condizioni di sicurezza nelle ditte orientali pratesi (in otto anni ne sono state verificate 9.500, con sanzioni per oltre 20 milioni di euro) estirpando quasi del tutto il fenomeno delle fabbrichedormitorio. Ma la piaga dello sfruttamento lavorativo non è stata intaccata e costituisce un fattore competitivo decisivo per chi sforna grandi quantità di capi di abbigliamento fast-fashion a basso prezzo da vendere in tutta Europa. Le aziende di confezionamento cinesi presenti a Prato sono 4.482; gli ispettori dell’Ispettorato del lavoro Prato-Pistoia «passeranno dai 24 attuali a 32, di cui 5 già inseriti negli organici » ha annunciato nei giorni scorsi dalla Prefettura della città laniera il ministro del Lavoro, Andrea Orlando. Ma da anni il sindaco di Prato Matteo Biffoni chiede un potenziamento degli apparati statali e questa sproporzione tra controllori e controllati balza agli occhi. Fare indagini per contestare lo sfruttamento lavorativo, a maggior ragione senza il contributo della denuncia delle vittime, richiede tempi lunghi e un gran dispendio di risorse investigative: così si colpiscono singoli casi, ma non si scardina il sistema.